Nelle pagine che seguono verrà presa in esame una chiave di lettura della poesia montalina, attraverso l’analisi di quello che riteniamo un carattere distintivo della poetica di questo autore: la congiunzione “e”. Sarà individuato un vero e proprio percorso “evolutivo” mediante alcuni esempi tratti da: Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro e Satura. Come si vedrà, negli Ossi di seppia Montale si serve spesso della “e” per tentare di instaurare, anche se invano, un rapporto tra se stesso e l’“altro” da sé: un’immagine o un “tu” apportatori di senso. Talvolta negli Ossi la “e” si fa esemplificativa di una distanza tra il poeta e gli uomini che “non si voltano” (Non chiederci la parola e Forse un mattino andando). Una situazione analoga si verificherà ne Le occasioni (Ti libero la fronte). Tuttavia ci sembra possibile ravvisare una differenza interessante rispetto agli Ossi. Nella prima raccolta il poeta, rinchiuso nella prigione esistenziale, si rivolgeva a un “tu”, nella speranza di vedere “libero”, se non se stesso, almeno lui. Nella seconda raccolta, invece, sembra rivolgersi al medesimo “tu”, per chiedergli di intrappolarlo ancora di più nel “male” che “tarla” il mondo. Ne La bufera e altro l’“e” collega l’“io” a un’alterità che è al tempo stesso rivelazione e rovina, “manna” e “distruzione”, e il “tu” sembra aver perso definitivamente ogni possibile apertura verso un “senso”. Infine in Satura la “e” non è in grado di generare armonia nemmeno per un istante; l’angelo è ormai un angelo “nero”, un “miniangelo spazzacamino” e le sue parole non si comprendono. Ora l’“io” si uniforma, cammina “incolonnato”, come tutti gli altri, e non si ferma più a guardare la propria ombra.
Nella poesia di Eugenio Montale ricorre con una certa frequenza la congiunzione “e”, usata per unire due o più elementi vicini, ma spesso anche ad apertura di verso. A nostro avviso una presenza così costante non è casuale. A sostegno di questa ipotesi ci sembra interessante riportare le seguenti parole di Romano Luperini in Storia di Montale:
[L’incipit del mottetto finale – «… ma così sia» – per contenuto semantico e modalità sintattica e metrica non solo riprende la conclusione del XIX («E il tempo passa»), ma anche si ricollega all’analogamente lapidario explicit del I («E l’inferno è certo»). La desolata accettazione finale («ma così sia») chiude la serie, riagganciandosi a queste due sentenze conclusive, similmente isolate in un emistichio e introdotte dalla stessa congiunzione («E»). Analoga è anche la situazione di trapasso verso il buio, di sera incombente: al «vespro» del I corrisponde il «vespero» del XX. È pure ripresa, ma rovesciata di segno, a indicare la progressione del male, l’opposizione interno-esterno, chiuso-aperto: se l’intimità della casa poteva essere, in I, ancora un rifugio contro l’«aperto» infernale, in XX la vita, ridotta al tavolo e alla stanza da lavoro del poeta, appare ormai limitata e come essiccata, incapace di raccogliere l’armonia che i suoni provenienti dall’esterno probabilmente suggeriscono («Un suono di cornetta / dialoga con gli sciami del querceto»). Così inizio e fine della sezione stringono i «Mottetti» in un unico cerchio depressivo.1 ]
La congiunzione coordinativa “e” ha qui la funzione di stabilire relazioni tra situazioni analoghe, però si tratta di una connessione che si attua sotto il segno di una negatività esistenziale; è per questo che nell’ultimo mottetto la “e” lascia il posto alla congiunzione avversativa “ma”, tramonta così ogni barlume di speranza, al poeta non rimane altro che accettare con rassegnazione la propria “disarmonica” collocazione nell’esistenza. Le “e” di Montale sono «ben poco rassicuranti».2 Riteniamo importante segnalare al riguardo le seguenti riflessioni di Andrea Gareffi in Montale. La casa dei doganieri:
[Nell’ultimo verso, là dove se ne trovano due, la prima, «ed io non so», rafforza il tono sgomento, mentre la seconda «chi va e chi resta», assume un drammatico significato disgiuntivo: perché accomuna nell’indistinzione tanto chi scompare, il tu, quanto chi non scompare, l’io (che poi scompare a sua volta, seppure in un altro modo). Accomunati dal fatto drammatico di non essere più insieme. Accomunati dal fatto drammatico di non essere neppur più riconoscibili: interscambiabili persino, ma comunque destinati a non incontrarsi. Questa «e» rilutta alla sua natura congiuntiva e finisce per rappresentare un destino di divisione. Ma anche qui divisione e congiungimento lavorano insieme, congiunti su di un piano più alto.3]
A nostro parere “congiungimento” e “divisione” operano insieme non soltanto in questi testi, ma in quasi tutte le poesie di Montale. L’impiego della congiunzione “coordinativa”-“disgiuntiva” “e” è un tratto distintivo della poesia di quest’autore. Con la ripetizione della “e” Montale sembra mettere in scena il suo tentativo “dialettico” di aprirsi un “varco” tra “prigione” e “salvezza-liberazione”, “interno” ed “esterno”, “chiuso” e “aperto”, “angelico” e “demoniaco”, “apparizione” e “scomparsa”, “unione” e “separazione”, “presenza” e “assenza”, “vita” e “morte”.
Ora per avvalorare tale ipotesi stimiamo opportuno citare alcuni versi montaliani.
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.4
Qui (poesia I limoni) di “e” ne abbiamo ben due. La prima sembra realizzare una fusione “sinestetica” tra il “susurro” e i “sensi” dell’“odore”, ma questa possibilità di unione viene subito messa in discussione attraverso la seconda “e” che probabilmente ha una valenza disgiuntiva; perché l’“odore” non è in grado di “staccarsi da terra”, ma al tempo stesso “piove in petto una dolcezza inquieta” (la valenza negativa emerge anche dall’ossimoro “dolcezza inquieta”).
Sempre ne I limoni:
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
[…]
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.5
Tutte queste “e” sembrano generare “armonia”: gli esseri umani trovano la loro parte di ricchezza (l’“odore dei limoni”), il “gelo” del cuore “si sfa” e i limoni possono inondare il cuore col suono delle loro canzoni; tuttavia il sostantivo “odore” inserisce una nota di negatività, perché si tratta di quello stesso “odore” che “piove in petto una dolcezza inquieta”, tra l’altro la visione salvifica non è totale, poiché “i gialli dei limoni” si possono scorgere soltanto da “un malchiuso portone”. Inoltre per mezzo della congiunzione “e” Montale sembra voler istituire un rapporto tra le immagini delineatesi in questa poesia e quelle analoghe della poesia successiva Corno inglese:
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D’alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento nasce e muore
nell’ora che lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.6
In quest’ottica risulta interessante osservare che: gli “Eldoradi” potrebbero richiamare alla mente la “ricchezza” del “giallo” dei “limoni”, le “malchiuse porte” fanno pensare al “malchiuso portone”, il “mare” che “lancia” una “tromba” e il “vento” che “suona” lo “strumento cuore” sono simili ai “limoni” che “scrosciano” nel “petto” “le trombe d’oro della solarità”. Anche qui la possibilità di un “varco” aperta dalla congiunzione “e” si rivela un’illusione; si parla infatti di “schiume intorte”, il vento “nasce e muore”, l’ora “s’annera” e il cuore è uno strumento “scordato”.
Nei due esempi seguenti estrapolati dalla sezione Ossi di seppia la “e” si fa esemplificativa di una distanza:
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!7
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.8
Nel primo caso la “e” mette in luce uno sdoppiamento tra l’essere umano e la sua ombra, e probabilmente evidenzia anche una presa di distanza del poeta dall’uomo comune; il poeta, a differenza dell’uomo comune, presta attenzione ai lati oscuri del suo animo, ma non può riferirli, perché se parlasse chiaramente “l’ilare gente codarda” non lo comprenderebbe. Nel secondo caso la “e” invece di “coordinare” sembra rafforzare la contrapposizione introdotta dal “ma”, facendo emergere nuovamente la distanza tra gli uomini normali “che non si voltano” e il poeta “che ha osato voltarsi”, diventando così custode di un inquietante segreto (“il nulla alle sue spalle”). Una situazione analoga ritornerà nella poesia de Le occasioni, ad esempio nei seguenti versi di Ti libero la fronte:
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.9
Dunque anche qui la “e” serve a generare un contrasto tra il poeta e gli altri uomini “che non sanno”, dissidio ulteriormente evidenziato dall’ossimoro in enjambement: “sole freddoloso”. Interessante è, a nostro avviso, la presenza della congiunzione “e” nella II strofa del mottetto XV:
al primo buio, quando
il bulino che tarla
la scrivanìa rafforza
il suo fervore e il passo
del guardiano s’accosta:
al chiaro e al buio, soste ancora umane
se tu a intrecciarle col tuo refe insisti.10
Qui per mezzo della “e” Montale sembra realizzare un continuo gioco d’incontro tra immagini contrastanti. La scena si svolge al buio («primo buio») in opposizione alla prima strofa («Al primo chiaro»); ma “chiaro” e “buio” si incontrano nel penultimo verso («al chiaro e al buio»). Dunque attraverso la “e” sembra concretizzarsi l’azione d’“intreccio” di “giorno” e “notte” con il “refe” compiuta da un “tu” (presenza costante nella poesia montaliana). In quest’ottica probabilmente non è casuale l’impiego del termine “refe”; visto che il “refe” si ottiene unendo “due” filati diversi. Si tratta dell’“intreccio” di soste “ancora umane” (“giorno” e “notte”); forse “umane” in quanto momenti della vita di ogni essere umano. Inoltre il “tu” “intreccia” “giorno” e “notte” con un materiale legato alla vita “umile”, visto che spesso il “refe” viene usato per cucire sacchi e reti da pesca. Qui il poeta si rivolge a un “tu”, non per invitarlo a fuggire dalla “rete” di un’esistenza priva di senso, come nella poesia In limine posta ad apertura degli Ossi di seppia («Cerca una maglia rotta nella rete/che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!»11), con l’intento di avere, pur essendo prigioniero, la consolazione almeno di vedere libero quel “tu”; ma ci si rivolge per chiedergli di intrappolarlo ancora di più nel “male” che “tarla” il mondo. Montale sembra desiderare ardentemente un evento soprannaturale (forse l’unione in un medesimo istante di “giorno” e “notte”); tuttavia la sua visione “metafisica” del mondo “cozza” contro i limiti angusti della prigione esistenziale. È per questo che il misterioso “tu” non è in grado di generare “miracoli”, può soltanto realizzare una rete ancora più fitta; forse non si verificherà mai nulla di “straordinario”, e le due “soste” (“giorno” e “notte”) rimarranno per sempre umane, come rimarrà incolmabile quel “varco” introdotto dalla “e” tra “prigione” e “salvezza-liberazione”, “interno” ed “esterno”, “chiuso” e “aperto” nei seguenti versi:
la scrivanìa rafforza
il suo fervore e il passo
del guardiano s’accosta
A supporto della nostra ipotesi di lettura della poesia montaliana riteniamo opportuno segnalare il ruolo della congiunzione “e” nel titolo della terza raccolta: La bufera e altro. Qui mediante la “e” si verificano una contrapposizione e al tempo stesso un tentativo di congiungimento. Infatti da una parte vi è la “bufera” intesa come immagine della guerra e dall’altra vi sono i valori della civiltà e la poesia stessa; ma spesso la bufera si fa essa stessa immagine di alterità, di “rivelazione” che si affaccia attraverso “lampi” improvvisi, i quali illuminano la realtà, fissandola in qualcosa di eterno e contemporaneamente di istantaneo. Si rifletta al riguardo su questi versi di La bufera:
il lampo che candisce
alberi e muri e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo, manna
e distruzione.12
Riteniamo particolarmente interessante la “e” presente in questi versi di Serenata indiana:
non è così. Il polipo che insinua
tentacoli d’inchiostro tra gli scogli
può servirsi di te. Tu gli appartieni
e non lo sai. Sei lui, ti credi te.13
In primo luogo ci sembra opportuno sottolineare che qui la “e” dà voce a un dualismo esistenziale, a un soffocante senso di non appartenenza. La donna, alla quale si rivolge Montale con il consueto “tu”, crede che le sue parole e le sue azioni siano autentiche, e non si accorge di “appartenere” a una presenza estranea (“il polipo”) che si “serve” di lei e la schiaccia sotto il peso di una vita inautentica senza ideali e verità. Per quel che concerne l’immagine del “polipo” ci sembra possibile ravvisare delle analogie con i versi finali di Genova di Dino Campana:
L’ombra cava e la luce vacillante
O siciliana, ai capezzoli
L’ombra rinchiusa tu eri
La Piovra de le notti mediterranee.
[…]
Il debole cuore batteva un più alto palpito: tu
La finestra avevi spenta:
Nuda mistica in alto cava
Infinitamente occhiuta devastazione era la notte
tirrena.14
Anche Campana si rivolge a un “tu” dalle sembianze mostruose («la Piovra delle notti mediterranee»), che però, a differenza del “tu”-“polipo” montaliano, riesce ancora ad avere un compito, se pure negativo: quello di guardiana di “una notte fonda”, dove tutto è in “rovina”, una notte senza immagini, nella quale le stelle hanno gli occhi “cavi”. Inoltre dall’analisi di Serenata indiana sembra emergere un’ulteriore evoluzione in quel processo di “disgiunzione” compiuto da Montale nel corso delle sue raccolte attraverso l’uso della congiunzione “e”; «e non lo sai» sembra richiamare alla mente «Ed io non so» de La casa dei doganieri. In quest’ottica è come se nella poesia di La bufera e altro Montale imprigionasse nella sfera della mancanza di senso non solo l’“io”, ma anche il “tu”. Prima il “tu” non “ricordava” («Tu non ricordi»15), ora addirittura “non sa”.
La tematica del “lampo”, che come abbiamo visto è così presente ne La bufera e altro, ritornerà in Satura nell’“eguale e ineguale” “rapido lampeggio” dell’“incomprensibile fabulazione” dell’“angelo nero”; ma qui la “e” tra i due aggettivi “eguale” e “ineguale” non ha la forza di creare armonia nemmeno per un istante: l’angelo è ormai un angelo “nero”, “buio”, un “miniangelo spazzacamino” e le sue parole non si comprendono. Si prendano in considerazione al riguardo i seguenti versi:
O grande angelo nero
[…]
o piccolo angelo buio,
non celestiale né umano,
angelo che traspari
trascolorante difforme
e multiforme, eguale
e ineguale nel rapido lampeggio
della tua incomprensibile fabulazione
[…]
grande angelo d’ebano
angelo fosco
o bianco, stanco di errare
se ti prendessi un’ala e la sentissi
scricchiolare
non potrei riconoscerti come faccio
nel sonno, nella veglia, nel mattino
perché tra il vero e il falso non una cruna
può trattenere il bipede o il cammello,
e il bruciaticcio, il grumo
che resta sui polpastrelli
è meno dello spolvero
dell’ultima tua piuma, grande angelo
di cenere e di fumo, miniangelo
spazzacamino.16
Ormai in Satura nessuna “e” tenta più di congiungere l’“io” a un’“alterità” salvifica; semmai genera vincoli indissolubili tra l’“io” e una realtà aliena a ogni significato. Non è nemmeno in grado di rinunciare alla sua natura “congiuntiva” e “disgiungere”, sia pure per un istante, il poeta dagli uomini che “se ne vanno sicuri”; ora l’“io” si uniforma, anche lui, come gli altri non si ferma a guardare la propria ombra, non si chiede più nulla. In quest’ottica risultano significativi i versi finali di Gli uomini che si voltano:
Non me lo chiedo neanch’io. Sono colui
che ha veduto un istante e tanto basta
a chi cammina incolonnato come ora
avviene a noi se siamo ancora in vita
o era un inganno crederlo. Si slitta.17
Qui al poeta non interessa scorgere il “nulla” alle “sue spalle” come in Forse un mattino andando, adesso non crede più a niente, gli “basta” camminare “incolonnato”, come tutti gli altri, addirittura a stento, rischiando di “slittare”, perché brancola nel buio, è diventato irrimediabilmente “cieco”; niente potrà più “metterlo nel mezzo di una verità”, nemmeno “uno sbaglio di Natura”, perché “demoni” e “dei” sono ormai “indistinguibili”. Si osservi l’efficacia con cui la congiunzione “e” li pone sullo stesso piano in questi versi di Dopo una fuga:
La mia strada è passata
tra i demoni e gli dèi, indistinguibili.18
Come emerge da quanto detto finora, la congiunzione “e” si fa “portavoce” della poetica montaliana; rappresenta il suo tentativo estremo di reagire allo svuotamento di ogni valore nella società del ventesimo secolo, inseguendo un senso inafferrabile. Se dovessimo rappresentare con un’immagine la “e” di Montale potremmo figurarcela come un “filo”, il “filo” de La casa dei doganieri, quello stesso “filo” usato da Teseo per uscire dal labirinto, qualcosa dunque che sembra promettere una via d’uscita. Tuttavia a differenza del “filo” di Arianna quello di Montale è destinato a “spezzarsi”, rinchiudendo per sempre il poeta in un “labirinto” senza vie d’uscita.
___________________________
1 Romano Luperini, Storia di Montale, Bari, Laterza, pp. 85-86.
2 Andrea Gareffi, Montale. La casa dei doganieri, Roma, Studium, 2000, p. 36.
3 Ivi, pp. 36-37.
4 Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 1948, p. 9.
5 Ivi, pp. 9-10.
6 Ivi, p. 11.
7 Ivi, p. 39.
8 Ivi, p.54.
9 Eugenio Montale, Le occasioni, Torino, Giulio Einauidi Editore, 1996, p. 104.
10 Ivi, p. 112.
11 Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 1948, p. 5.
12 Id., Finisterre, Torino, Giulio Enaudi Editore, 2003, p. 5.
13 Ivi, p. 17.
14 Dino Campana, Canti Orfici, Milano, Rizzoli, 1989, p. 234.
15 Eugenio Montale, Le occasioni, Torino, Giulio Einauidi Editore, 1996, p. 144-146.
16 Id., Satura, Milano, Mondadori, 2009, p. 209-211.
17 Ivi, p. 228.
18 Ivi, p. 250.