Che un creato non possa esistere senza un suo creatore è sicuramente un truismo. Pur tuttavia, identificare tale creatore non sempre si rivela un'operazione senza intoppi. Nel caso della tradizione orale, l'identità di questa "fonte" sembra fluttuare tra l'idea di collettività e quella di individualità, con una propensione per la prima.
In "The Storyteller: Reflections on the Works of Nikolai Leskov", Walter Benjamin pone l'accento sulla crescente distanza cui viene relegato il narratore dalla percezione dello stesso che la collettività ha (1936, p. 83). Quasi una figura che si perde nelle nebbie della tradizione orale, il narratore diventa un essere ignoto, senza volto e senza nome, un menestrello la cui unica funzione è quella di arricchire il patrimonio culturale collettivo, che, per l'appunto in quanto collettivo, deve rimanere privo di qualunque elemento possa anche solo velatamente accennare all'idea di individualità.
La folkloristica tardo-ottocentesca e in particolare quella britannica, alimentata dal solerte operato dei membri della londinese Folklore Society (1878), esprime molto bene quello che si potrebbe definire un rigetto a riconoscere nella tradizione orale un carattere individuale. La Folklore Society di fine Ottocento presenta infatti un approccio basato su un evoluzionismo che vede negli esempi di oralità (racconti, aneddoti, proverbi, adagi ecc.) dei relics, degli elementi appartenenti ai primi stadi evolutivi dell'umanità, quasi dei fossili ormai spogli del loro significato originario. Secondo questa concezione, l'oralità diverrebbe una reliquia del passato avulsa dal proprio ambiente, ma da preservare con cura in forma scritta come testimonianza di un'epoca lontana e quasi irreale.
Non è sicuramente azzardato suggerire che questo atteggiamento sia stato dettato da una reazione ai numerosi e spesso dolorosi cambiamenti avvenuti, nell'arco del suddetto secolo, nella società, nell'economia, nella politica e nella produttività britanniche. Un'accelerazione relativamente rapida del ritmo di vita, generata da un'industrializzazione in pieno sviluppo, può aver dato origine, in concomitanza a una trasformazione qualitativa della vita stessa, anche a una vena nostalgica "per i bei tempi andati", per l'ordine e la "tranquillità". Il passato diventa quindi il simbolo di uno stile di vita che la nuova società industriale non permette più, e viene celebrato attingendo a immagini tanto bucoliche quando poco realistiche. Tra queste, lo stereotipo di una popolazione rurale idealizzata e depositaria delle radici culturali della nazione: il folk, anonimo contenitore - certamente non autore - di tradizioni da salvaguardare quasi come pezzi da museo.
Ma la tradizione orale è veramente il prodotto di un'anonima quanto collettivizzata voce di popolo? Già nel tardo Ottocento e proprio in risposta all'approccio della Folklore Society, il letterato e folklorista Joseph Jacobs (1854-1916) imbocca una strada diversa e contesta l'idea che essa sia frutto di una non ben specificata collettività, sottolineando il fatto che deve pur esserci stato, in principio, un iniziatore, un individuo che ha dato vita al fenomeno in questione, quantunque della sua identità si siano perdute le tracce (1893, p. 234). Convinto assertore dell'individualità, Jacobs sottolinea la vaghezza del termine folk, paragonandolo provocatoriamente quasi a un mostro mitologico, a una creatura dalle molte teste la quale avrebbe dato origine a tutta la letteratura gettata nel contenitore etichettato "folklore" (ibid.). Il folk in realtà, afferma Jacobs, è una frode, un termine-jolly messo a tappare un buco, quello venutosi a creare nella memoria di chi non riconosce più l'identità individuale dietro un qualunque elemento della tradizione orale.
Il lungo e proficuo studio dei cantastorie slavi ha permesso ad Albert Bates Lord di negare la natura anonima di tale tradizione e di sostenere, invece, l'individualità creativa del narratore, il quale infonde vita alla tradizione durante la narrazione (1960, p. 13). È rilevante il fatto che Lord ricorra a termini quali "creazione", "creare", "fare" per suggerire che narrazione e composizione abbiano luogo nel medesimo istante, sottolineando il contributo concreto che il narratore dà alla sua esecuzione.
È tuttavia con la sociolinguistica americana dell'etnopoetica, e in particolare con studiosi quali Dennis Tedlock e Jerome Rothenberg, che il carattere individuale dell'oralità acquista visibilità. Nata dalla necessità di trovare un modo diverso di rappresentare la multidimensionalità della narrativa orale nativoamericana, l'etnopoetica sottolinea l'interazione di verbale e nonverbale, facendo entrare in gioco anche elementi di carattere sociale, contestuale e culturale. Questo perché trascurare il lato estetico, visivo, auditivo e percettivo di una narrazione orale per concentrarsi esclusivamente sulla parola scritta significherebbe ritrovarsi con un prodotto a metà, uno scheletro spogliato della propria carne. Questa "carne" non può prescindere dal narratore, ossia da colui che plasma la parola e le trasmette il suo carattere individuale. Partendo da questi presupposti, l'etnopoetica si sforza di riportare su carta la nonverbalità della narrativa orale, piegandola in un certo qual modo alle costrizioni del mezzo ma nel contempo mettendo in evidenza l'importanza di questo elemento che, lungi dall'essere semplicemente "di contorno" - folkloristico, verrebbe da dire - si afferma come la chiave per accedere a una personalizzazione del racconto, a una sua trasformazione in una creazione impromptu da parte di un personaggio che abbandona il ruolo di "ripetitore" per abbracciare quello di creatore.
In questo senso, la narrazione diventa qualcosa di ben ancorato non solo a un preciso istante spaziotemporale, ma anche a un determinato individuo, acquisendo così un'immanenza che ne forma l'aspetto e le conferisce significato. Di conseguenza, considerando il particolare sapore che ogni narratore trasmette alla propria narrazione, diventa difficile riuscire a separare la produzione orale dagli individui che prendono parte alla sua creazione. L'individualità si spinge dunque ben oltre il mero ascolto del cantastorie di turno, per abbracciare un approccio olistico in cui il narratore non è più solamente latore di un collettivo messaggio, bensì si assume la responsabilità di ciò che sta effettivamente producendo. La narrazione diviene quindi il frutto di un individuo e a sua volta l'individuo diviene il creatore di un preciso prodotto, riuscendo così a varcare un confine che la folkloristica del Diciannovesimo secolo gli aveva precluso.
Bibliografia
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