“Quasi il cinquanta per cento dei giovani, di età compresa tra i quattordici ed i diciannove anni, non sa più scrivere in corsivo”. La frase, che suona come il preludio all’Apocalisse della Civiltà della Scrittura, è tratta dal romanzo poliziesco Vite Corsive di Marco Nundini, definito da molte parti come un giallo filografico, anzi, secondo Casa Bolaffi, come “il romanzo che sdogana per la prima volta nel panorama dell’editoria non specializzata il neologismo filografia, inteso come ricerca di ogni traccia che documenti la storia della scrittura e della comunicazione umana”. Ma siamo veramente prossimi al declino, se non alla perdita del ductus della scrittura? O si tratta semplicemente di un presagio troppo influenzato dalla moderna tecnologia o dall’incalzare di una generazione di nativi digitali? Per dare una risposta a queste domande ho incontrato Marco Nundini al Pisa Book Festival, kermesse letteraria toscana nella quale l’autore era impegnato a promuovere il suo prossimo libro Maxima Culpa. Ha accettato volentieri di fare per noi di Progetto Babele un passo indietro e concedersi ad alcune riflessioni sui temi che hanno caratterizzato il suo lavoro di esordio e che offrono al lettore più attento numerosi spunti di riflessione.
Sono davvero così tanti i giovani che hanno perso la capacità di scrivere in corsivo?
So che può sembrare strano, specialmente a quelli come me che fanno parte di quella generazione dove la penna stilografica rappresentava un regalo importante, un passaggio. Se ti riferisci alla citazione che il Filografo, personaggio chiave di Vite Corsive, fa durante una sua lezione posso dirti che è tutt’altro che inventata. Arriva da uno studio dell’Associazione Nazionale dei Pedagogisti Clinici guidata dal professor Guido Pesci. La perdita della scrittura corsiva è una realtà assai bene documentata da sociologi, neurolinguisti, pedagogisti. E’ il risultato di un processo di omologazione culturale che si è accentuato con l’avvento delle nuove tecnologie, ma soprattutto sottovalutando l’importanza della scrittura corsiva che, in molti casi, è stata relegata al ruolo di Cenerentola nei programmi didattici. Anche il Time ha pubblicato un reportage che parla di “lutto per la morte del corsivo”, segno che di problema planetario si tratta. Stiamo parlando della civiltà della scrittura.
Non ti sembra che questo allarmismo calligrafico possa essere scambiato come la visione nostalgica di una generazione che fatica a stare al passo con i tempi?
Io sono un uomo perfettamente a suo agio con le tecnologia dell’era in cui vive, anzi potrei quasi dire che sono un cultore della civiltà digitale, ma proprio per questo ne riconosco rischi e limiti. Stringere una penna tra le mani ed affrontare un foglio con il corsivo è un fatto fisiologico. Umberto Eco, ad esempio, ne parla come del prolungamento della mano, qualcosa di assolutamente biologico. Una forma di comunicazione legata al corpo. Ho letto di recente un articolo interessante dove era spiegato molto bene che scrivere in corsivo significa tradurre il pensiero in parole, in unità semantiche, scrivere in stampatello vuol dire invece sezionarlo in lettere, spezzettarlo, negare il tempo e il respiro della frase. Non è dunque un caso che siano in tanti a ritenere che la perdita del corsivo è alla base di molti disturbi dell' apprendimento segnalati dagli insegnanti elementari e che rendono poi più arduo tutto il percorso scolastico. C’è addirittura chi si spinge oltre. Evi Crotti, psicopedagogista, scrittrice ed esperta di grafologia, dalle pagine de Il Giornale, scrive che la maggior parte degli adolescenti che preferiscono scrivere in stampatello pone in evidenza un disimpegno verso la realtà, un mascherarsi di fronte alla responsabilità. A fronte di questa analisi gli educatori, cito sempre la Crotti, dovrebbero fare molta attenzione prima di chiedere o addirittura d'imporre di sostituire una grafia illeggibile con lo stampatello, poiché ciò sottintende già qualcosa che non va, e cambiare il corsivo con lo stampatello è come prendere una pillola senza risolvere il problema che sta a monte. Forse è per questo che in Inghilterra alcuni anni fa diverse scuole hanno reintegrato l'uso della penna stilografica, per costringere gli studenti a reimparare la bella grafia, mentre in Francia gli istituti superiori sono tornati alla dettatura, visto che di anno in anno gli studenti avevano deciso senza motivo di decapitare migliaia di parole dei loro accenti.
Penna contro computer?
Non c’è nessuna guerra santa! Non è un problema di scelte. Si tratta di comprendere che i due strumenti possono coesistere, integrarsi. Ci sono cose che mai mi sognerei di fare a mano oggi, visto che il computer è straordinario. Penso solo alle ricerche bibliografiche. Ma il fascino, la ricchezza espressiva, l‘esercizio di stendere parole sulla carta hanno quel valore aggiunto che nessuna tastiera possiederà mai. E’ come dare forma ad un pensiero con un’unica linea. Un esercizio neuro motorio straordinario. Una sorta di simbiosi con il mondo che ci circonda e che ci appartiene.
Scusa se ti interrompo. Non ti sembra una forzatura molto new-age?
Ho letto alcuni saggi sulla scrittura bustrofedica. Non ti spaventare! E’ il nostro modo di scrivere che parte da un lato e corre sino ad un margine e srotola le lettere corsive nello stesso modo. Così come il nostro occhio corre da sinistra a destra, dall’alto in basso, i nostri registi cinematografici nella maggior parte dei casi spostano i carrelli da sinistra a destra e probabilmente i nostri agricoltori tenderebbero a lavorare i campi andando da sinistra a destra e via di seguito. Tutto questo cambia se a scrivere è, ad esempio, un iraniano. L’occhio e la scrittura, in questo frangente, vanno da destra a sinistra. Jean Claude Carriere, notissimo sceneggiatore cinematografico e televisivo, conferma che lo stesso vale per le inquadrature del cinema di quel paese. Quindi accostare la scrittura corsiva alla percezione del proprio mondo, del proprio io, non sono una forzatura. Giuliana Ammannati è una pedagogista clinica ed un’insegnante, per oltre un decennio ha messo sotto la lente la scrittura dei suoi allievi adolescenti. La sua teoria sull’abbandono del corsivo? Questo tipo di scrittura è propria, ti mette a nudo, ti rende unico. Più facile nascondersi dietro l’omologazione dello stampatello. Si notano grandissime resistenze a far uscirei ragazzi dall’uso costante dello stampatello al punto che dopo aver scritto in corsivo non riescono a rileggere le proprie parole, per questo poi, a seguire, continuano nell’uso dello stampato. Se a questo aggiungiamo che l’impiego di strumenti come telefonini e notebook ha imposto una nuova forma di linguaggio breve, ridotto ai minimi termini, non dobbiamo stupirci se qualcuno vi scorge un impoverimento della lingua e della capacità espressiva. In ambito accademico c’è chi ipotizza un principio dei vasi comunicanti tra scrittura e lettura. Se non si impara il corsivo, i suoi tempi, la sua musicalità, come si farà a concentrarsi sulle parole di un libro? Ma quest’ultima è una teoria che francamente considero un po’ sui limiti.
Mi pare però che le nuove generazioni non siano avare di parole, scritte intendo. Magari non in corsivo. In stampatello okay, piene di acronimi e di sigle, spaventosamente abbreviate... Parole, però. La capacità di apprendere resta immutata, forse sollecitata da nuove forme più digitali.
Lo ripeto, parlare della perdita della scrittura corsiva non significa demonizzare per forza la tecnologia digitale, i computer. Ci deve però fare riflettere su quello che perdiamo, sul fatto che possa valere la pena di perderlo completamente o meno. Hai appena citato un altro tema che alimenta Vite Corsive. Il passaggio dalla carta al codice binario, che in fondo ha dato una bella spinta alla perdita del corsivo, ha anche messo in luce quanto la promessa dell’eternità offerta dal digitale si sia rivelata una bugia colossale. Oggi la moderna tecnologia si cannibalizza da sola. Acquisti un computer, un lettore di supporti digitali e appena lo hai installato ed hai fatto tuoi i sui segreti scopri che è già obsoleto. Ti faccio un esempio: pensa ad un incunabolo del quindicesimo secolo. Consunto, ingiallito, tostato dal tempo, reso fragile dall’età. Indossi un paio di guanti di cotone, lo sfogli con cura. Lo leggi. Ti rendi conto. Lo leggi. Così con una missiva vergata a mano. Sei secoli nel mezzo eppure nel secondo millennio sei in grado di leggerlo. Non così puoi fare di un vhs, con un floppy o con un cd vecchio di qualche anno. Tra un po’ sarà difficile pensare di leggere i dvd di prima generazione. Ciò solleva un’altra riflessione: paradossalmente abbiamo reperti filografici, lettere scolpite del periodo babilonese che ci raccontano, a caratteri cuneiformi impressi nell’argilla, cosa scriveva un principe alla sua innamorata, ma nulla ci è rimasto dell’approccio sentimentale di due giovani della nostra epoca fatto a colpi di sms. Prova a pensare alla tua corrispondenza! Quante mail ed sms hai conservato degli ultimi sei anni? Pochi vero?. Tra trenta, quarant’anni sarà impossibile ricostruire frammenti della nostra vita così come, invece, il Filografo riesce a fare per gli emigranti a cavallo tra le due guerre nel mio romanzo.
Filografia! Curioso che la consacrazione a giallo filografico per il tuo romanzo arrivi dalla massima autorità in fatto di collezionismo, piuttosto che da ambienti più letterari! Perché?
Semplice! Bolaffi, simbolo per antonomasia del collezionismo nel nostro paese è anche un’importante casa d’aste che, in questi ultimi anni, ha profondamente spostato il concetto di collezione facendolo evolvere da semplice raccolta di oggetti a conservazione e studio dei reperti stessi. Così dalla filatelia si è andati nella direzione della storia postale e da qui il passo verso la filografia è stato breve. Filografia è un neologismo nato proprio in casa Bolaffi, un nome che ha dato vita anche al primo museo italiano di filografia che ha sede a Torino. La Filografia, termine che deriva da philos e graphia, ovvero scrittura, è lo studio e collezionismo di tutte quelle tracce relative alla civiltà della scrittura, dai caratteri sumeri alle lettere inviate nello spazio, passando dalle pergamene medievali. Ogni reperto filografico non è dunque il singolo testimone di un'epoca, di una cultura o di una civiltà, ma è il tassello per ricomporre un puzzle millenario. Non è istintivo pensarci, ma attraverso la raccolta, lo studio e l'analisi di antiche missive nella loro complessità (la tipologia, il contenuto, il francobollo, l'annullo postale) è, infatti, possibile ricostruire straordinari frammenti della nostra storia.
Come quelli dell’emigrazione che sviluppi nel tuo libro?
Assolutamente! Se attraverso il prezioso lavoro degli storici, grazie ai loro saggi, noi siamo in grado di ricostruire per i posteri gli elementi storici caratterizzanti ogni epoca, non altrettanto accade per le sfumature, ovvero per quelle pennellate di storia intima che umanizzano gli eventi. Per ricostruire la storia delle tre generazioni di emigranti io ho copiato ciò che i miei personaggi, gli investigatori del mio romanzo, il Filografo in modo particolare in quanto studioso fuori dalle righe e sospeso tra passato e presente, hanno fatto per risolvere il loro caso: la lettura e lo studio di datate ed ingiallite lettere. Quelle stesse lettere che le famiglie di emigranti si scambiavano da una parte all’altra dell’oceano. Se ci pensi è grazie a queste lettere, grazie alla parola scritta che ci è pervenuta sino ad oggi, ritrovata in un grande archivio epistolare dell’emigrazione, che con Vite Corsive ho fatto rivivere le loro vite corsive, quelle dei nostri emigranti che lasciavano le famiglie per cercare fortuna, per sfuggire alla miseria. Mia figlia, tra quarant’anni, non potrà fare altrettanto con mail ed sms sublimati nell’etere. Quindi, come vedi, la scomparsa del corsivo, accelerata dalla cultura digitale, concorre e soffre essa stessa dalla mancata inalterabilità del codice binario.
Dopo tutto ciò trovi provocatoria una domanda sugli ebook?
Sono una trovata meravigliosa così come lo è stata Internet o l’invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera di Gutemberg. Penso ai manuali tecnici e scientifici, ai libri di testo per la scuola, ai vocabolari, a voluminose raccolte di normative, sentenze. Credo anche che non potranno mai sostituire veramente un libro di carta e inchiostro così come non saranno in grado di surrogare il piacere di sfogliare un buon romanzo tra il tepore delle coperte o seduti in riva al mare. Ammesso poi che i produttori di ebook si accordino su uno standard univoco, immagina cosa proveresti, dopo aver impiegato anni a costruire la tua e-biblioteca, nello scoprire che una nuova tecnologia renderà presto i tuoi libri elettronici obsoleti, illeggibili sui lettori di nuova generazione. Ricordi l’incunabolo del cinquecento: nessun supporto e la luce di una candela. E sono passati secoli.
Ora che ne sappiamo di più su scrittura corsiva e filografia trovo giusto congedarmi con un’ultima domanda. Il tuo nuovo romanzo, Maxima Culpa, un nuovo giallo filografico?
Non così apertamente tematico come Vite Corsive, ma con un elemento assolutamente filografico: l’interpretazione di una tavoletta cuneiforme che anticipa di molti anni il mito del Diluvio Universale a noi trasmesso con la Bibbia, guarda caso il primo libro stampato da Gutemberg. Più filografico di così.
NOTE:
LA FILOGRAFIA
La parola scritta è la straordinaria testimone del nostro passato. Prendiamo una lettera ad esempio: essa racchiude in un disordinato, spesso passionale, fiume di parole e di dettagli, il vissuto di chi la scrive e di chi la riceve. Spesso quel vissuto costituisce un unicum. Una testimonianza non replicabile di un evento, di un viaggio, un’emozione. Se fino a pochi anni fa quel contatto diretto tra pensiero e pennino, tra pulsione emotiva e inchiostro rappresentava l’unica tradizionale forma di scrittura, oggi le cose sono cambiate. I nuovi strumenti di comunicazione non si sono limitati, come già accaduto in altre epoche, a modificare il linguaggio, ma hanno reso la struttura stessa dello scrivere effimera, non durevole per certi versi. Alla luce di ciò è ancora più importante raccogliere e preservare ogni traccia che documenti la storia della scrittura e della comunicazione umana. Questo rappresenta, in sintesi, la filografia. Avvicinarsi a questa ricerca storica e culturale significa osservare in modo analitico il passato più remoto, contestualizzare le “lettere a Dio” del III millennio, pensare alla sorprendente capacità degli Egizi di comunicare con i geroglifici attraverso i papiri, ma anche comprendere la longevità del francobollo od allungarsi alle prime forme di scrittura tecnologica, quali i caratteri della Bibbia di Gutenberg. Un appassionato di filografia può contare su una gamma di reperti capaci di soddisfare le più svariate necessità culturali e documentali, sapendo però che, unico freno al possesso del “pezzo da collezione”, è spesso il prezzo di acquisto che seleziona la tematica. Se possedere una tavoletta assira o un papiro egizio può costare qualche decina di migliaia di euro, sappiate che è assai più abbordabile collezionare lettere del XIV secolo che documentino la nascita della borghesia mercantile europea.
Bibliografia essenziale
Sulla scrittura corsiva:
Alessandra Venturelli, Il corsivo: una scrittura per la vita. Prevenzione e recupero della disgrazia, 2009, Gruppo Editoriale Mursia, Euro 18.
Un libro che approfondisce in maniera tecnica e aggiornata le principali problematiche legate all'apprendimento della scrittura manuale e alla disgrafia, indicando possibilità di recupero e di prevenzione, sulla base di un metodo messo a punto dall'autrice in dieci anni di sperimentazione nella scuola primaria e dell'infanzia. Vengono esaminate le componenti neurofisiologiche, grafo-motorie e percettive che, nella loro combinazione, realizzano l'atto grafico e vengono analizzate le diverse posizioni attualmente assunte dagli specialisti sulla scrittura manuale e sulla disgrafia evolutiva che, sulla base di alcune recenti ricerche, risulta essere nella popolazione scolastica italiana un "fenomeno sommerso", ma gravemente sottovalutato sia in ambito scolastico che sanitario.
Sulla filografia:
Elogio della parola scritta. Un invito alla filografia, 2008, Allemandi, Euro 35.
Splendido volume illustrato in grande formato. el libro il collezionista Alberto Bolaffi raccoglie ventotto lettere, dall'antichità ad oggi, accompagnate da diverse fotografie a colori di opere d'arte: dai pittogrammi mesopotamici su tavolette d'argilla ai papiri egizi, dalle tavolette romane ai codici papali, dalle pergamene dei dogi veneziani alle prime lettere commerciali su carta, dall'apparizione delle buste da lettera ai primi francobolli (ineguagliabili cronisti della storia), fino ai telegrammi, ai messaggi ai cosmonauti, alle odierne e-mail. Ventotto lettere di sovrani, comandanti militari, papi, vescovi, poeti, filosofi, letterati, scrittori, politici e scienziati raccontano storie diverse. Come un piccolo mercante fiorentino del Trecento poteva scrivere dalla Via della Seta ad uno dei suoi famigliari in Orsanmichele che gli stava spedendo in una piccola busta chiusa dalla ceralacca alcuni semi di una pianticella esotica ritrovata in Medio Oriente, così un anonimo innamorato di uno sperduto villaggio di montagna dell'Europa orientale può scrivere all'amata lontana una lettera poetica.
Sull’evoluzione della parola scritta:
Eco Umberto, Carrière Jean-Claude, Non sperate di liberarvi dei libri, 2009, Bompiani, Euro 18.
Dal papiro ai supporti elettronici, percorriamo duemila anni di storia del libro attraverso una discussione contemporaneamente erudita e divertente, colta e personale, filosofica e aneddotica, curiosa e gustosa. Passiamo attraverso tempi diversi e diversi luoghi; incontriamo persone reali insieme a personaggi inventati; vi troviamo l'elogio della stupidità, l'analisi della passione del collezionista, le ragioni per cui una certa epoca genera capolavori, il modo in cui funzionano la memoria e la classificazione di una biblioteca.
Nella fiction letteraria:
Marco Nundini, Vite Corsive, 2008, Ibiskos Editrice Risolo, Euro 13.
La rivoluzione digitale del secondo millennio ha ormai cancellato il corsivo, il ductus della scrittura, trasformando quei caratteri tanto cari alle passate generazioni in geroglifici incomprensibili. Per questo motivo il giovane ispettore Loreta Assensi, poco più che trentenne, è costretta a chiedere aiuto per risolvere un insolito caso d'omicidio. Insolito a partire dall'arma, perché chi ha ucciso lo ha fatto con i fiori. Non solo un giallo dai riflessi noir, ma il presagio di un mondo il cui passato presto svanirà nell'effimera vita di uno stile di comunicare senza più carta, senza più inchiostro.