Il presente saggio intende indagare gli usi e i costumi dei ragazzi della Beat Generation stigmatizzati e canonizzati nel romanzo di Kerouac.
On the road[1] di Jack Kerouac ha costituito, e per certi versi continua tutt’oggi a costituire, un modello oltre che un passaggio obbligato nella formazione di un giovane lettore. Come nel 1957, quando il romanzo venne pubblicato per la prima volta, fece con il vecchio e nutrito pubblico delle avanguardie, anche oggi è ancora in grado di destabilizzare e sorprendere, pur essendo divenuto esso stesso anticonvenzionalismo convenzionato. Dunque, pur essendo emblema della Beat Genearation e figlio di colui che ella prese a simbolo, non perse mai il suo soffio vitale di effervescente novità.
Andiamo però con ordine, prima di passare ad On the road, è necessario fare una ricognizione sull’ambiente che lo ha prodotto.
La Beat Generation: i sogni dei ragazzi della “gioventù bruciata” ( A cura di Riccardo Renzi)
Parlare di Kerouac significa parlare di un revival estetico, di un nuovo stile di vita, di un modello alternativo agli standard della vita sedentaria, quasi un ritorno al nomadismo[2]. Però se si parla di Kerouac e della Beat Generation, non si può escludere dalla dissertazione la città di San Francisco e il ruolo che essa assunse in questo revival culturale[3]. San Francisco[4] negli anni Sessanta e Settanta del Novecento divenne la nuova capitale letteraria d’America: dopo essere passata da Boston a Chicago e da Chicago a New York[5]. Quest’ultima che era stata bene ai Dadaisti e alle Avanguardie, era ormai troppo convenzionata, troppo immersa nella società reale e sottomessa ai dettami della finanza di Wall Street, per i nuovi fermenti culturali che avrebbero portato alla costituzione della Beat Generation[6].
La presenza di molti illustri profughi e le nuove linee culturali resero San Francisco la città americana meno legata a tradizioni rigorosamente locali, mentre il resto degli Stati Uniti veniva fagocitato dal conformismo capitalistico, questa metropoli andò delineandosi come una specie di oasi di individualismo, dove la libertà personale è ancora possibile grazie forse alle tracce mediterranee e messicane di un laissez-faire e dolce far niente che si cercherebbero invano in qualsiasi altra città degli States. La città in breve tempo forgiò la sua reputazione, oltre che di centro culturale di prim’ordine, anche di città “felice”[7]. Proprio di questa “felicità proibita” i ragazzi della Beat Generation si nutrono, uno stato d’animo, quello della felicità non più raggiungibile nelle altre metropoli americane, schiacciate sempre più dai vincoli della società di massa. Si cerca allora di evadere, di scappare da tutto ciò.
La voce che San Francisco fosse “la città più felice d’America” iniziò a circolare e gli artisti cominciarono ad affluirvi come allodole agli specchi. Col trascorrere del tempo vi affluirono anche i vecchi dadaisti e gli avanguardisti Newyorkesi[8].
I giovani artisti e scrittori non riuscivano più a tollerare la frenetica vita metropolitana, cercarono così di evadere da questa, tornando a ristabilire un legame con la natura e con sé stessi[9]. Illuminanti risultano le parole del poeta e critico letterario statunitense Kenneth Rexroth[10]: «La tutela delle intelligenze ha formato una spessa crosta di abitudini sulla vita culturale americana: peggio di uno strato di ghiaccio. Di recente l’acqua che vive sotto di esso è diventata così ribollente che lo strato di ghiaccio ha cominciato a fondersi, e spezzarsi, e a dirigersi verso l’oblio artico»[11]. Le parole di Rexroth sono particolarmente significative poiché egli partecipò e visse in prima persona le dinamiche della temperie culturale che fece sbocciare la Beat Generation. Quelli di cui ci parla Rexroth prima e che John Clellon Holmes[12] ha poi felicemente raccolto sotto al nome di Beat Generation, non sono professori o scrittori professionisti aggrappati a un impiego “sicuro” in case editrici di rilievo, com’era accaduto per la generazione precedente[13], ma giovani disperatamente inquieti, che credono nella vita ma respingono i sistemi morali e sociali precostituiti e vogliono crearne di nuovi, più vicini ad un originario stato naturale dell’uomo[14].
Dopo che Holmes li ebbe etichettati, questi ragazzi irrequieti bevvero molto, fumarono molta marijuana e vagarono a spasso per l’America senza una meta certa. Da ciò ben si evince come certi comportamenti della Beat Generation si andarono standardizzando solo dopo che furono ufficialmente classificati dalla critica. Uno di quelli più idealizzati fu proprio il viaggio in autostop, il viaggio senza meta come un dolce vagare nel nulla, prendere e partire all’avventura, e naturalmente il romanzo che meglio racconta e racchiude in sé il mito del viaggio è quello di Kerouac[15].
Per la critica è stato facile scambiare tutti questi ideali per una mera rivolta antiborghese o per un volgare edonismo e giudicarli come semplici epigoni di una generazione perduta, che vaga senza mete e senza frontiere, non sapendo ciò che realmente vuole. Ci sono stati flebili tentativi di accostare questi ragazzi a quelli della “Generazione di protesta”, che nel decennio seguito alla crisi americana del Ventinove raccolse e fece sue tutte le inquietudini sociali, assieme alle simpatie populiste degli avanguardisti letterari americani, esprimendo attraverso Richard Wright[16] prima e Irving Shaw[17] poi, la denuncia al conformismo sociale spietato e cannibale, del tempo[18].
In realtà simili accostamenti, forse troppo azzardati e dettati dall’incalzare della critica che forzatamente voleva identificare questa nuova temperie culturale, si rivelarono storicamente inesatti. Oltre ad una rivoluzione nei mores e a una protesta sociale, gli anarchici dadaisti, la generazione perduta e quella di protesta perseguivano una battaglia più consona all’attività degli artisti, in ogni modo cercavano di imporre al pubblico la loro visione estetica, combattendo così la borghesia conservatrice[19]. Nel medesimo modo gli artisti dell’Ottocento avevano dovuto combattere per poter imporre un loro programma estetico, il quale era concepibile solo al di fuori di una società limitata e ottusa: «le ubriacature di Baudelaire non erano di natura diversa da quelle di Hemingway, anche se i loro programmi letterari erano diversi»[20]. Il Poeta Maledetto e il Marinaio sapevano perfettamente cosa volevano; entrambi violentemente, quasi sadicamente, antiborghesi, conducevano una battaglia senza confini per sopraffare e annientare il loro orripilante conformismo.
La Beat Generation non ha una battaglia estetica da combattere. L’arte moderna ha ormai sopraffatto qualsiasi tipologia d’arte esistente: «coloro che non accettano (non dico capiscono o amano, ma proprio soltanto accettano) Pollock o Eliot o Hemingway e gli altri eroi della rivoluzione moderna americana, in America sono una tale minoranza che non mette più conto prenderli in considerazione»[21].
I ragazzi della Beat Generation non vogliono attualizzare alcuna rivoluzione estetica, né tantomeno quella culturale, vogliono semplicemente fuggire da una società nella quale non si riconoscono e che li opprime costantemente con il suo conformismo asfissiante. È la fuga dai dogmi il tema centrale della nuova temperie culturale, in cerca di un nuovo rapporto con la natura, con l’uomo e con sé stessi. Con questi ragazzi si ritorna al mito dell’uomo selvaggio rousseauano e al mito del viaggio senza programmi come avventura senza fine[22].
Kerouac e il mito del viaggio on the road (a cura di Luca Berdini)
Il mito del viaggio è appunto quello on the road, dove ci si nutre delle esperienze quotidiane fatte sulla strada e si scappa dalla monotonia conformista dettata dalla società metropolitana. La strada nel concetto del viaggio on the road diviene fonte d’ispirazione e scuola di vita, l’unico luogo nel quale è veramente possibile saggiare la vita, quella vera. Nel mondo del cinema tale concetto è impersonato da Marlon Brando quando interpreta il membro di una banda di motociclisti, un bullo buono senza quiete, eterno nomade lungo le strade dell’Alabama[23].
Keruoac cercando di fuggire dalla città scrisse all’amico Holmes: «Devo scegliere tra questa roba[24] e i camions delle strade. Credo che sceglierò i camions, dove non devo spiegare niente e dove non c’è niente di spiegato, ma ci sono soltanto cose reali»[25]. Proprio dalle sue parole riaffiora il concetto della strada come unico luogo fisico dove sperimentare la vita “vera”. Kerouac incominciò così un’esistenza nomade che gli consentì il contatto continuo con coetanei di ogni strato sociale e l’ininterrotta esperienza di una vita completamente svincolata da autorità o imposizioni esterne. È proprio il nomadismo, quel ritorno ad uno stato primordiale “preciviltà”, che consente allo scrittore di ritrovare il suo io. Il nomadismo come esperienza di vita è anche fonte d’ispirazione per la creazione scrittoria, la gestazione intellettuale può avvenire solo con l’esperienza diretta della vita[26]. Mediante il vagabondaggio in autostop, lo scrittore incontrò anche poeti e scrittori: poeti che si portano manoscritti nello zaino, questuanti di autostop che si nutrono di follia per vergare i loro romanzi[27]. Chi sono dunque i protagonisti di questi strambi incontri? Sono gli autori della Beat Generation, utilizzano un linguaggio che non è registrato in alcuna grammatica, un linguaggio nuovo, che rappresenta a pieno un nuovo modello di vita e del quale Norman Mailer[28] ha detto: «Se non si conoscono le esperienze di esaltazione e di esaurimento che esso è destinato a descrivere, questo linguaggio speciale non può sembrare che scaltro o volgare o irritante»[29]. La testimonianza di Holmes è particolarmente rilevante poiché egli ha vissuto in prima persona i tumulti di quella temperie culturale. Il modo di agire e di comportarsi di questi ragazzi è il riflesso delle loro inquietudini interiori. Vivono come vagabondi, si ubriacano, si drogano, vivono il sesso come depravazione orgiastica, passano da un’automobile all’altra premendo sull’acceleratore sino a bucarsi le suole delle scarpe, per questi ragazzi il futuro non esiste, il tutto è lì in quel momento, in quel lampo[30]. Questi sono i personaggi che caratterizzano il romanzo di Kerouac. Uno dei dialoghi tipici è: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati. Dove andiamo? Non lo so ma dobbiamo andare»[31]. L’andare, il vagare senza una meta come apax nella ricerca di avventura e di un’esperienza reale di “vita vera”, il vagabondaggio costituisce dunque il massimo dell’aspirazione per questi “personaggi” kerouichiani. Ai critici letterari dell’epoca questa corsa affannosa e affannata sembrò una fuga dal reale, ma con il tempo ci si rese conto che questa “fuga” non era altro che una continua ricerca attraverso un viaggio perpetuo. Si ritorna dunque ad una concezione del viaggio alla maniera degli antichi, come unico mezzo di conoscenza del reale. Il viaggio come esplorazione del mondo fuori di sé, ma allo stesso tempo anche conoscenza dell’io. Solo attraverso l’esperienza diretta è possibile l’attuazione della conoscenza.
Il dramma più disperato della Beat Generation è quello di trovare una realtà trascendente in cui poter credere, tale da soppiantare la realtà terrena ormai superata e inadeguata alle esigenze di questi ragazzi. La fuga da questa realtà è possibile o mediante l’uso di alcol e droghe, oppure appunto attraverso il viaggio in solitaria che allontana l’individuo dalla società e dal genere umano. Tutti i personaggi di On the road, da Sal (io narrante) a Dean, sono intrisi di questi ideali e di questi modelli di vita. La vita è un viaggio e come un viaggio va vissuta, per far si che essa si attui nella conoscenza del mondo.
I ragazzi della Beat Generation non sono dei semplici alcolizzati e drogati, ma sono sperimentatori ed esploratori della vita, che per mezzo del viaggio/avventura senza meta, concretizzano la loro esistenza.
Note:
[1] J. Kerouac, Sulla strada, introduzione di Fernando Pivano, Milano, Mondadori, 2010.
[2] L. Bartlett, The Beats. Essays in Criticism, McFarland, Jefferson, 1981, pp. 22-23.
[3] C. Gorlier, La beat generation: rivolta e innocenza, Viterbo, Stampa alternativa, 1996, pp. 9-11.
[4] G. Pedullà, Beat generation: generazioni a confronto, tesi di laurea, rel. Francesca Nacci, Stefanaconi, Accademia di belle arti Fidia, 2009/10. Si consiglia la lettura integrale del testo.
[5] G. G. Lemaire, Beat generation: une anthologie, Romainville, Al Dante, 2004, pp. 22-25.
[6] V. Amoruso, La letteratura beat americana, Bari, Laterza, 1969, p. 56.
[7] J. Kerouac, Sulla strada, cit., p. VII (introduzione).
[8] K. Myrsiades, The beat generation: critical essays, New York, Peter Lang, 2002, pp. 232-256.
[9] E. Bevilacqua, Guida alla Beat Generation, Roma, Theoria, 1994, p. 72.
[10] Kenneth Rexroth fu uno dei primi poeti statunitensi ad esplorare le tradizioni poetiche giapponesi come l'haiku. È indicato come il promotore del rinascimento poetico di San Francisco ed è correlato alla Beat Generation, sebbene più tardi criticò questo movimento. Le poesie, i saggi e gli articoli di Rexroth riflettono i suoi interessi nei confronti del jazz, della politica, della cultura e dell'ecologia. La poetica di Rexroth è simile a quella di Du Fu, che tradusse, poiché esprimeva indignazione nei confronti delle ineguaglianze del mondo da un punto di vista esistenziale. Kenneth Charles Marion Rexroth era figlio di Charles Rexroth, un promotore farmaceutico, e di Delia Reed. Sua madre morì nel 1916 e suo padre nel 1918, per cui egli andò a vivere con la zia a Chicago dove studiò al Chicago Art Institute. Nel 1923 e nel 1924 fu incarcerato come comproprietario di un bordello. Sposò Andree Dutcher nel 1927, un'artista di Chicago, che morì per le complicanze dell'epilessia nel 1940. Rexroth ebbe due figlie, Mary e Katherine, dalla sua terza moglie, Marthe Larsen. Durante gli anni settanta, insieme al discepolo Ling Chung, tradusse l'opera della famosa poetessa della dinastia Song Li Qingzhao e una antologia di altre poetesse cinesi, con il titolo The Orchid Boat. Con la pubblicazione di The Love Poems of Marichiko, Rexroth dichiarò di aver tradotto la poesia di un poeta giapponese morto da tempo; si scoprì successivamente che ne fu invece egli l'autore ed acquisì riconoscimenti dalla critica per essere riuscito a tradurre le sensazioni autentiche di un'altra cultura e periodo storico. Kenneth Rexroth fu incluso nell'influente serie antologica Penguin Modern Poets della Penguin Books, che gli permise di ampliare la sua reputazione al di fuori degli Stati Uniti d'America.
Su Kenneth Rexroth si veda: J. Hartzell and R. Zumwinkle, Kenneth Rexroth: a checklist of his published writings, Los Angeles, Friends of the UCLA library, University of California, 1967.
[11] K. Rexroth, The alternative society: essays from the other world, New York, Herder and Herder, 1970, p. 98.
[12] Docente universitario all'Università dell'Arkansas e alla Yale, il suo scritto "Go", del 1952, è considerato il primo in assoluto del genere beat. Fondamentali per la sua formazione letteraria fu l'amicizia con Jack Kerouac, Neal Cassady, e Allen Ginsberg. Fu Jack Kerouac a coniare il termine Beat Generation quando, rivolgendosi all'amico, esclamò: "You know, this is really a beat generation" (lo sai, questa è davvero una beat generation). L'espressione venne ripresa, poi, da Holmes in un suo articolo, dal titolo Questa è la Beat Generation, pubblicato il 16 novembre del 1952 sul New York Times Magazine (a pag. 10). Nell'articolo egli attribuiva la paternità del termine beat a Kerouac, il quale, a sua volta, la attribuì a Herbert Huncke.
Tra gli scritti principali di Holmes vi sono: Go (1952); The Horn (1958); Get Home Free (1964); Nothing More to Declare (1967); The Bowling Green Poems (1977); Death Drag: Selected Poems 1948-1979 (1979); Visitor: Jack Kerouac in Old Saybrook (1981); Gone in October: Last Reflections on Jack Kerouac (1985); Displaced Person: The Travel Essays (1987); Representative Men: The Biographical Essays (1988); Passionate Opinions: The Cultural Essays (1988); Dire Coasts: Poems (1988); Night Music: Selected Poems (1989).
[13] Qui si fa riferimento alle Avanguardie che si sono sviluppate nelle accademie.
[14] B. Cartosio, Anni inquieti, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 7-13.
[15] M. Bulgheroni, Il nuovo romanzo americano 1945-1959, Milano, Schwarz, 1960. Si consiglia lettura integrale dell’opera.
[16] Richard Wright (Natchez, 4 settembre 1908 – Parigi, 28 novembre 1960) è stato uno scrittore statunitense. È autore di romanzi di grande forza, talvolta discussi, nonché di racconti e saggi. Gran parte dei suoi testi riguardano temi razziali. La sua opera ha contribuito a ridefinire le discussioni sulle relazioni razziali in America alla metà del XX secolo.
[17] Shaw prese parte alla seconda guerra mondiale e nelle opere teatrali, fra cui la sua prima commedia Seppellire i morti (Bury the Dead, 1936) e nei romanzi, fra cui I giovani leoni (The Young Lions) l'autore condannò la guerra e la società borghese americana con toni efficaci e vigorosi, benché non privi di una certa retorica. Nel 1948 vinse il premio O. Henry per il racconto Walking Wounded che era stato pubblicato su The New Yorker. Con il successo, il suo talento di costruttore di trame ingegnose divenne sempre più evidente, come dimostra Povero ricco, popolare anche nella versione tv, seguito poi da Mendicante ladro, entrambi basati sull'american dream. Nel 1963 produsse anche un film, Amore alla francese (In the French Style) di Robert Parrish.
[18] G. Fink, Storia della letteratura americana, Milano, Sansoni, 2005, pp. 543-590.
[19] S. Lemoine, Il Dadaismo, Milano, Jaca book, 1986, p. 54.
[20] J. Kerouac, Sulla strada, cit., p. X (introduzione).
[21] Ibidem.
[22] A. Dister, La Beat Generation. Rivoluzione “on the road”, Torino, Electa-Gallimard, 1998.
[23] M. Maffi, La cultura underground, 2 voll., Bari, Laterza, 1972, p. 34.
[24] Qui si fa riferimento al conformismo dell’editoria metropolitana.
[25] J. Kerouac, Sulla strada, cit., p. XXIV (introduzione).
[26] M. Corona, Jack Kerouac, o della contraddizione: storie degli anni Cinquanta, Milano, I meridiani della Mondadori, 2001, pp. 12-25.
[27] A. Filippetti, Kerouac, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 63-81.
[28] Nato nel New Jersey, crebbe a Brooklyn. Studiò ad Harvard, laureandosi in ingegneria aeronautica, e divorando i classici del realismo americano. Nel 1943 partì per il fronte, attento a trasformare ogni esperienza nel romanzo più sensazionale sulla seconda guerra mondiale. Difatti, nel 1948, il romanzo Il nudo e il morto lo rese famoso e ricco. Anche se i suoi successivi romanzi non ebbero successo, non dovette preoccuparsi; infatti, nel frattempo, come fondatore e cronista del giornale del Greenwich Village iniziò una battaglia contro la società americana totalitaria, repressa, repressiva e nevrotica, facendosi portavoce della rivolta beat prima e hippy poi, di cui anticipò in parte la filosofia nel saggio Il bianco negro (1957). In quest'opera egli gettò le basi di un misticismo della carne, ispirato alla spontaneità, alla violenza e alla ricerca di sensazioni immediate che sarebbero state proprie degli afroamericani. La sua stessa vita si improntò a questo modello, e spesso diede esca a cronache scandalistiche: si rese famoso come bevitore di whisky, sperimentatore di LSD e fumatore di marijuana, ma anche per aver accoltellato la moglie e aver sfidato un campione di pugilato. Finì in carcere, ma ormai la sua fama era affermata. Nel 1964 con Il sogno dell'America, rileggendo Karl Marx attraverso il sessuologo Wilhelm Reich, dipinse un quadro allucinante delle nevrosi del suo Paese (la guerra del Vietnam sarebbe diventata una compensazione di tali nevrosi). Nel 1967 fu alla testa della marcia pacifista sul Pentagono, descritta in Le armate della notte (premio Pulitzer e National Book Award nel 1969). Nel 1970 si candidò, senza successo, come sindaco di New York. Rivinse il Pulitzer nel 1980 per Il canto del boia, la storia del primo cittadino statunitense a venire giustiziato nel 1977 dopo un decennio di sospensione della pena capitale.
[29] N. Mailer, Le armate della notte, Milano, Mondadori, 1968, p. 42.
[30] G. Fofi, Presentazione a I vagabondi del Dharma, Milano, Garzanti, 1988, pp. 3-7.
[31] J. Kerouac, Sulla strada, cit., pp. 24; 37; 65.