In questo articolo prenderemo in considerazione i memorialisti e gli storici del Romanticismo italiano.
Largo sviluppo ebbe in tutto il secolo ma specialmente nella prima metà, la letteratura delle memorie e dei ricordi, legata alla eccezionalità delle vicende che caratterizzarono la vita di tanti patrioti. Tali opere furono composte per lo più da uomini che univano strettamente l’attività politica a quella letteraria e che con le memorie della loro vita volevano diffondere il sentimento patriottico, nonché ricordare compagni di lotta scomparsi o dimenticati.
Inoltre tali uomini volevano far conoscere ai contemporanei e ai posteri la nobiltà e la bellezza degli eventi della loro vita, educare il lettore al rispetto e al culto dell’epoca storica che essi avevano vissuto. Pertanto troviamo nelle loro pagine un soffio di alta dignità umana, di incondizionato amore per la patria e talvolta di elevata arte.
In tali pagine sono presenti nobili sentimenti espressi in uno stile e in una lingua di facile comprensione e colloquiale anche quando tali scritti sono opera di scrittori esperti. Pertanto si tratta di opere che hanno grande importanza nella storia della nostra letteratura e della nostra cultura dal momento che contribuirono a costruire e a diffondere una prosa moderna basata sulla comunicazione cordiale con il lettore, sotto l’influsso più o meno sensibile della prosa manzoniana.
Tali opere nella schiettezza e nella semplicità del loro contenuto riuscirono a rafforzare notevolmente l’amore per la patria negli italiani, ragion per cui sono l’emblema del forte legame tra letteratura e sentimento patriottico riscontrabile nel nostro Romanticismo.
Il più noto dei memorialisti è Silvio Pellico, autore della famosa opera “Le mie prigioni”. Silvio Pellico si trasferì nel 1809 a Milano e divenne noto per una tragedia intitolata” La Francesca da Rimini”. Tale opera che fu uno dei maggiori successi di quel tempo presenta già molti aspetti romantici: il tema storico- medioevale utilizzato anche per fini patriottici; un sentimentalismo già troppo languido e lacrimevole; un certo idealismo di maniera.
Pellico divenne amico dei più importanti romantici di quel tempo tanto che fu nominato nel 1818 redattore capo del Conciliatore dove pubblicò molti articoli alcuni di notevole importanza. Nel 1820 fu arrestato come carbonaro e condannato morte. La pena gli fu commutata in quindici anni di carcere che trascorse nello Spielberg, in Moravia.
Durante la prigionia Pellico si convertì ad una convinta fede religiosa che lo tenne lontano dagli atteggiamenti bellicosi di un tempo. Uscito di prigione pubblicò l’opera intitolata “Le mie prigioni”, libretto che lo ha reso famoso. Alcuni dissero che Le mie prigioni danneggiarono l’Austria più di una battaglia persa mentre altri ritennero l’opera frutto di una rassegnazione passiva.
In realtà “Le mie prigioni” nascevano da un profondo cambiamento interiore in seguito al quale Pellico abbandono ogni fiducia nella lotta e nell’azione e si abbandonò ad una fede convinta e profonda. Nelle “Mie prigioni” con una prosa semplice ma efficace Pellico racconta la sua storia dall’arresto all’uscita dal carcere, con umanità intensa e coinvolgente.
Ne "Le mie prigioni" sono presenti ritratti scritti in punta di penna, appena abbozzati eppure indimenticabili, nonché pagine piene di umanità che attestano la dignità e l’altezza morale con cui Pellico come tanti altri visse la sua fede.
Anche se Pellico è il più importante memorialista del romanticismo italiano non è sicuramente l’unico. Per fare un esempio molto diverso dal tono riscontrabile nelle “Mie Prigioni” è il tono presente nell’opera di Carlo Bini, morto assai giovane, collaboratore dei giornali mazziniani e poi dl Mazzini che conobbe nel 1830. Venne arrestato, e descrisse la sua prigionia nell’opera “Manoscritto di un prigioniero" redatto nel 1833.
Tale opera è ricca di umorismo ed inoltre è caratterizzata da una forte attenzione agli aspetti sociali della vicenda narrata.
Ancora diverso è il tono dell’opera di Massimo D’Azeglio, intitolata “I mie ricordi”. D’ Azeglio, autore tra l’altro di romanzi storici scrisse tale opera a Risorgimento finito quando come afferma una frase famosa dello stesso D’Azeglio, "fatta l’Italia occorreva fare gli italiani".
Questa letteratura basata sulle memorie proseguì anche nella seconda metà dell’800 soprattutto ad opera di quanti avevano partecipato alle imprese di Garibaldi pertanto si può parlare di una vera e propria letteratura garibaldina redatta in prosa e in versi per tutto il secolo.
Tra i tanti autori di tale letteratura garibaldina occupa un posto di rilievo Giuseppe Bandi che fu ufficiale nella “Spedizione dei mille”.
Entrato nell’esercito italiano dette poi le dimissioni per dedicarsi integralmente al giornalismo nel quale rivestì un ruolo di grandissima importanza. Venne ucciso nel 1893 con un attentato anarchico.
Bandi scrisse numerosi articoli nonché vari romanzi importanti sia gli uni che gli altri per la interessante lettura della realtà sociale del suo tempo.
Scrisse poi un volume di ricordi intitolato “I mille”.
Tuttavia il capolavoro di questa letteratura garibaldina è considerato il libretto di Cesare Abba intitolato” Da quarto al Volturno”. Abba dopo aver partecipato alla seconda guerra di indipendenza era stato con Garibaldi nel 1860 e nel 1866.
Abba visse poi appartato facendo il professore. Ritornò più volte in vari libri su quelle vicende. Le sue opere furono tre: “Storia dei mille”, “Vita di Nino Bixio”, “Cose garibaldine”.
Resta il già citato “Da Quarto al Volturno”. In tali opere Abba descrisse quelle vicende che lo avevano visto protagonista e che acquistarono col passare degli anni una luce affascinante e nostalgica. Abba rielaborò più volte i suoi scritti, frutto di un lungo lavoro che diede luogo ad una prosa nella quale l’affettuosità dei ricordi si coniuga con uno stile accurato.
Nell’opera di Abba troviamo ritratti, descrizioni che esprimono con efficacia la sua commozione e la sua nostalgia dei tempi passati in uno stile semplice eppure attentamente studiato.
Per quanto riguarda altri storici dobbiamo dire che possono connettersi alla cultura risorgimentale alcuni storici vissuti a cavallo tra l’ultimo settecento e il primo ottocento. Il più importante di tali storici tanto per il valore della sua opera quanto per l’influsso che esercitò, fu Vincenzo Cuoco. Nato a Civitacampomarano nel 1770 visse a Napoli vicino ai circoli riformatori e illuministici. Ebbe incarichi di poca importanza nella repubblica partenopea, tuttavia al ritorno dei Borboni fu esiliato. Rientrò a Napoli dopo la conquista napoleonica e ricoprì importanti cariche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.
Morì a Napoli nel 1823. Cuoco è famoso per “il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli” del 1801 che è tra le opere più importanti della nostra storiografia. Tale opera ebbe una forte influenza non solo sugli storici ma anche sui letterati e poeti contemporanei come il Foscolo e il Manzoni. Il Cuoco analizzò il fallimento della repubblica partenopea partendo dal principio che la rivoluzione napoletana era stata “passiva” in quanto importata dall’esercito francese. Per tale ragione sarebbe stato necessario conquistare la simpatia del popolo in generale e in particolare delle masse contadine legandole alla rivoluzione con l’eliminazione del feudalesimo.
Invece gli intellettuali che erano a capo della rivoluzione erano stati incapaci di fare ciò e avevano preteso di conquistare la simpatia delle masse popolari presentando loro quelle idee che erano comprensibili a poche persone. Per di più gli intellettuali che erano a capo della rivoluzione mentre non erano stati in grado di dare ai contadini una nuova condizione economica e sociale ne avevano anche offeso il sentimento religioso combattendo non solo il clero ma addirittura la religione che tanto cara era ai contadini.
Cuoco mette in evidenza nella sua opera che il leader della rivoluzione napoletana fu misero il gravissimo errore di cercare di distruggere l’idea stessa di Dio mentre avrebbero dovuto limitarsi ad attaccare il clero eliminando i suoi ingiustificati privilegi.
Questi errori di astrattezza intellettuale avevano secondo Cuoco rovinato la rivoluzione e avevano causato la nascita dei moti sanfedistici. In tali moti il popolo napoletano sotto la guida del cardinale Ruffo (uomo spregiudicato e reazionario ma buon politico) aveva travolto la repubblica napoletana.
Il saggio di Cuoco oltre che per i suoi meriti letterari è un’opera di importanza capitale nella nostra storiografia risorgimentale. Tale opera infatti oltre appoggiare più tardi le tesi dei moderati, pose e analizzò un problema essenziale del nostro Risorgimento ovvero il distacco delle masse popolari dalle minoranze borghesi e intellettuali.
Tale distacco è la spiegazione dei tanti fatti storici, culturali e letterari dell’800. In effetti l’incapacità di coinvolgere le masse popolari fu il problema principale che dovettero affrontare gli uomini che guidarono il Risorgimento italiano dal momento che purtroppo le idee dei patrioti e quelle del popolo non erano le stesse.
Tale problema di capitale importanza era la diretta conseguenza di secoli di missione politica tra gli stati italiani e di divisioni sociali e perciò culturali all’interno di ogni stato.
Questo era il nodo che il Risorgimento avrebbe dovuto sciogliere
e il cui mancato scioglimento ha pesato fino ai nostri giorni.