La ricerca linguistica durata quasi un quarto di secolo per la compilazione del mio Dizionario dei dialetti della Calabria meridionale (Qualecultura, Vibo Valentia 2010) mi ha portato a sperimentare quanto sia facile in Italia, specialmente nelle zone meno influenzate dal fervore della vita cittadina, scoprire genuine forme espressive vernacolari che rivelano la naturale disposizione alla poesia della nostra gente e che testimoniano una tradizione poetica che meriterebbe maggiore attenzione ed un attento studio. In Calabria, una miriade di poeti grandi e piccoli, colti o meno colti, ciascuno con la propria individualità e capacità poetica, alimenta una tradizione che affonda le sue radici nell’antica spiritualità ellenica.
Già nei secoli che ci hanno preceduto, autori come Domenico Piro, Giovanni Conia, Rosario Borgia, Antonino Martino, Bruno Pelaggi, Giuseppe Monaldo, Vincenzo Ammirà, Michele Pane, Vittorio Butera – solo per citare i più noti, ma ai quali si potrebbe aggiungere una lunga schiera di autori considerati “minori”– con i loro componimenti hanno dato voce ad una forte identità culturale fatta di valori e abitudini, e quindi di una visione del mondo, che la scuola, la radio e la televisione, a causa di una malintesa concezione dell’unità nazionale, hanno cercato di oscurare da centocinquanta anni a questa parte.
Negli ultimi decenni studiosi come Antonio Piromalli (La letteratura calabrese, Pellegrini Editore, Cosenza 1996) , Pasquino Crupi Storia della letteratura calabrese. Autori e testi, Periferia, Cosenza 1997 e Francesco Grasso La poesia delle Calabrie, Qualecultura, ViboValentia, I vol. 1994, II vol. 2006) hanno cercato di dare, attraverso una documentata valutazione, forma e interpretazione alla storia della letteratura dialettale calabrese con risultati certo meritori, tuttavia c’è ancora molto da fare per giungere ad un canone esplicativo della multiforme intelligenza regionale.
Nel corso della mia ricerca dialettologica ho avuto modo di accostarmi a poeti antichi e nuovi, leggendo le cui opere non mi sono limitato all’aspetto linguistico, ma ho cercato, senza catalizzare la mia attenzione soltanto sulla produzione colta, di auscultare la loro anima, desideroso di fare conoscenza dei “profeti” del popolo calabrese, cioè di coloro che hanno parlato o che parlano per il popolo calabrese, degli interpreti delle ansie, delle angosce, delle gioie e dei dolori di generazioni di miei corregionali, che forse hanno manifestato o manifestano alcuni limiti, ma anche genuina freschezza.
Così nacque la mia amicizia con Rocco Nassi, un poeta che, con la caparbietà tipica dei calabresi, non ha mai accettato di adeguarsi alle mode e ha cominciato, sin da giovanissimo, ad affidare quotidianamente i suoi pensieri a versi scritti nella sua prima lingua, il dialetto.
Rocco non ha frequentato le Università, ma ha temprato il suo carattere sulla spiaggia di Bagnara e, osservando gli incanti e le asprezze di quella costa a strapiombo sul mare delle sirene, davanti ad uno dei paesaggi più belli del mondo, tra Scilla e Cariddi, ha iniziato un cammino di solidarietà con tutti gli esseri umani che vivono nella sofferenza e che lottano per la sopravvivenza, non ultimi le migliaia di immigrati che, fuggendo dalla povertà dei loro paesi, giungono sulle nostre coste ammassati in malsicuri barconi.
Nassi con le sue poesie ci propone una cultura altra rispetto a quella dominante, fermamente convinto che la società dei consumi, la globalizzazione selvaggia e senza tutela, l’assenza di qualsiasi progetto, anche territoriale, di difesa delle proprie radici, hanno soffocato e distrutto la cultura delle classi popolari.
Coloro che sono giunti a detenere il potere legislativo, dall’unità ad oggi, hanno mostrato insensibilità verso la cultura e la politica si è rivelata uno strumento per perpetuare posizioni di potere che hanno favorito e divaricato la frattura tra popolo e classe dirigente, tra Nord e Sud, ma chi porta dentro di sé le ragioni di appartenenza, di quelle ragioni continuerà a nutrirsi e a farsi guidare. Mi riferisco al mondo dei contadini e dei pescatori, visto non come mito, ma vissuto come un’inseparabile “patria”, perché «un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
Ci sono alcuni tratti che, nella poesia di Rocco Nassi, caratterizzano il legame poesia-dialetto e che sono generati dalla territorialità, dall’oralità, dal patrimonio culturale, dalla tradizione.
Al centro del mondo poetico di Nassi ci sono il paese, la famiglia, gli uomini, le radici storiche e la sua lingua materna che egli cerca di sottrarre all’oblio e alla quale necessariamente si attiene e che propone come parte vitale di se stesso: non si tratta di un restringimento o marginalizzazione del “parlare agli altri, al mondo, all’umanità” ma una esplicitazione e rivendicazione di identità nella pluralità delle esistenze e delle esperienze.
Le sue raccolte di poesie, in particolare le ultime due, No’ esti na źannella (2014) e U ricriju r’u me’ cori (2015) edite da Disoblio Edizioni, riportano sentimenti, solitudini, forme di pensiero, imprecazioni, mentalità, saggezza, credenze, ribellioni, comportamenti di fronte alla morte, alle disgrazie, alle abitudini, rapporto con le stagioni, gli animali, la natura, sfide con se stessi e con il destino tipiche della cultura popolare che solo un membro della comunità può rappresentare, ma anche affermazione culturale, scavo linguistico, recupero filologico e ci propongono un corpus lessicale prezioso con il quale un popolo, quello calabrese, continua a nominare nel giusto significato le cose, i sentimenti, le persone. Si tratta di versi in cui il dialetto, oltre ad essere una custodia dell’anima popolare, resta strumento di comunicazione ed espressione e non una piacevole e pittoresca parlata: è, insomma, una lingua la cui scomparsa rappresenterebbe la fine di una civiltà, di una cultura, di un sistema di vita.