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L'incendio nell'oliveto
Capitolo 08
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 08

Padre e figlio se ne tornavano a casa silenziosi, un po' discosti l'uno dall'altro, nelle strade buie, deserte. Era una notte tiepida, stellata, già estiva. Un canto corale, lontano, che pareva di pastori nella valle, risuonava nell'aria quieta. Stefano guardava per terra, come per vedere dove mettere i piedi, e quel canto gli dava un senso confuso di tenerezza e di angoscia: ma ascoltava anche i passi rumorosi e pesanti del padre, che pareva avesse i piedi ferrati come di un bue, e l'angoscia vinceva la tenerezza. Sentiva che il padre non avrebbe aspettato il domani per chiedergli una spiegazione. Gli sembrava già di vederlo entrare grave in casa, aspettare che il lume fosse acceso e sollevando il viso dirgli: "Stefene, devo parlarti".

E sapeva già come rispondergli.

Eppure la sua angoscia aumentava. Poco prima di arrivare alla loro casa, zio Predu si fermò e batté il bastone per terra. Pareva non volesse aspettare oltre a parlare: poi riprese a camminare più forte e più rapido.

Stefano gli si era avvicinato e aspettava. Sì, sapeva come rispondere; tuttavia la sua chiave girò lenta nella serratura del portone, come s'egli avesse timore ad aprire, e nel richiudere, mentre il padre lo precedeva di qualche passo nel chiarore grigiastro che la facciata bianca della casa spandeva sul cortile, egli ricordò le notti quando studente tornava a casa tardi e faceva di tutto per rientrare furtivo senza incorrere nei rimproveri paterni. Anche adesso avrebbe voluto fare così. Ma il padre, invece di precederlo fino alla porta, s'era fermato in mezzo al cortile. La sua figura corta e nera pareva diventata più grave, più compatta, appesantita dal pensiero che l'occupava.

Era un peso, sì, di cui zio Predu voleva liberarsi subito, prima di entrare nella casa; e per un momento si guardò attorno cercando ove meglio scaricare quel peso.

Il cortile precedeva la casa bianca a due piani con le finestre piccole senza persiane: due tettoie di travi e di tegole nerastre ne fiancheggiavano i lati, di qua e di là della casa, come due grandi ali spiegate; sotto una di esse si sentiva il ruminare dei cavalli e il russare dei maiali addormentati: dall'altra era balzato un grosso cane lanoso e caldo che si fregava contro le gambe di Stefano e lo guardava con gli occhi luccicanti nell'ombra.

"Stefano, devo parlarti", disse zio Predu; e si diresse al posto ove soleva passare le ore belle della giornata per ricevere le visite dei vecchi amici e dei paesani che venivano a chiedergli consiglio e aiuto. Era un angolo ben riparato, fra il portone e la tettoia destra, con un sedile di pietra ombreggiato dal fico: un angolo ben riparato, dove si poteva parlare liberamente senza essere ascoltati o spiati.

Sedette, batté di nuovo il bastone per terra, più volte, come tastando il selciato; parve trovare il punto fermo dove appoggiarsi bene, e allora sollevò il viso, guardò, al disopra del frastaglio nero del fico e del profilo delle tettoie, il quadrato di cielo fitto di stelle.

Stefano gli sedette accanto: aveva l'impressione che la facciata pallida della casa li guardasse come un grande viso misterioso, fra le due ali nere delle tettoie, attraverso lo spazio solitario del cortile. Il cane si era accovacciato silenzioso ai suoi piedi, ed egli sentiva come il soffio e l'odore di tutto il suo passato, di tutta la sua razza, in quel lieve ansare del cane, nel ruminare delle bestie sotto le tettoie, nel profumo umido di strame e di erbe aromatiche che si mischiava all'odore di selvatico del padre.

Non era la prima volta che sedeva lì, alla sera, accanto a lui. Altre volte vi si era seduta anche la madre, e fra tutti e tre era stato un quieto discutere di cose famigliari, un parlare delle cose attorno, e delle cose passate e di quelle da venire, e delle terre, del bestiame, del grano, e di monete, di monete, di monete, fitte, lontane eppure incombenti come tutte quelle stelle sopra la testa.

Il padre disse, come riprendendo un discorso interrotto:

"Dunque, dimmi una cosa, Stefene; a che cosa voleva accennare quell'idiota di Juanniccu?"

Stefano parve cercare di ricordarsi; e si volse senza paura, o fingendo a sé stesso di non averne; ma attraverso la doppia maschera delle tenebre e della sua finzione sentiva gli occhi del padre, vigili e un po' luccicanti come quelli del cane, scrutargli l'anima.

"Juanniccu?", disse lentamente, interrogandosi. "Era ubriaco, al suo solito, e sragionava."

"Sei certo, che sragionava? Bada, Stefene, io non voglio rientrare in casa senza il lume acceso."

"Babbo! Che parole son queste?"

"Ascoltami, Stefene. Sono vecchio, ma uomo sono anch'io. E conosco la vita. E semplice non sono stato. Peccato ho, anch'io, ma ho rispettato sempre la casa mia come una chiesa. Se non cominciamo noi a rispettarla, la casa nostra, chi la rispetta? La mia casa me l'ho edificata io pietra per pietra, eccola lì, bianca come un altare, con le stelle per ceri: la vedi tu? Ho lavorato, Stefene; se uomo ha lavorato quello son io. E ho edificato la casa per tua madre, per te, per i tuoi figli, più che per me. E ho rispettato sempre, anche attraverso i miei peccati e i miei errori d'uomo, la mia casa e la presenza di tua madre e tua nella mia casa. Quante occasioni ho avuto, di peccare là dentro, Stefene! E quante ne avrei ancora, vecchio come sono e oramai impotente ad andar lontano a peccare. Eppure, no, no! Io rispetto ancora la presenza di tua madre; mi sembra ch'essa non se ne sia andata: è attorno al focolare e alle sue casse."

Stefano ascoltava senza replicare.

"Così ti dico, Stefene; sì, bisogna rispettare la propria casa, come il sacerdote rispetta l'altare dove celebra la messa. La famiglia è sacra. E così voglio che tu la rispetti, la tua casa, adesso e in avvenire. Se hai voglia di scherzare, scherza fuori, Stefene, hai inteso? Tua madre ha dato le chiavi ad Annarosa, ma la padrona è ancora lei, e la devi rispettare."

"Babbo, lasciate le prediche e ditemi piuttosto in che cosa ho mancato di rispetto alla casa e a voi."

La sua voce sdegnosa irritò il padre.

"Sono io che devo interrogarti. Dimmi che cosa voleva significare quell'idiota."

"Io non so dirvelo, ammesso pure che egli parlasse sul serio. Che quel ragazzo, Gioele, ronzasse attorno ad Annarosa tutti lo sanno. Lei stessa fin dai primi giorni me lo disse e mi assicurò di non pensare più a lui e di avergli assolutamente tolto ogni speranza. Da molto tempo egli non frequentava più la casa. E del resto son cose da bambini. Che importa, questo?"

"E non è questo che importa. È l'altro."

"L'altro? Quale altro? Che io possa aver a che fare con la matrigna?"

Zio Predu batté con forza il bastone per terra.

"Questo, sì, malanno!"

Stefano arrossì, nell'ombra, ma ritrovò subito la sua calma. Pareva anche a lui di aver cacciato via di corpo una cosa pesante. Si sentiva sollevato.

"Babbo, nessuno ha mai dubitato della mia onestà! Solo voi, adesso. Ebbene, poiché è necessario, e solo con voi posso farlo, vi assicuro che fra me e quella donna non c'è stato mai nulla di male."

"La donna, però, ti piace."

Stefano non rispose.

"Se lei ti piaceva", disse il vecchio dopo un momento di silenzio, con voce mutata e un po' turbata, quasi avesse già ricevuto la confessione del figlio, "perché domandare la ragazza? Questo non lo capisco."

Allora Stefano rise, un riso vago, pieno di rancore e d'ironia, mentre il padre, seguendo il filo del suo pensiero, continuava a dire ma come parlando fra sé:

"È che l'uomo fa sempre il suo tornaconto. O crede di farlo! E tenta d'ingannare gli altri, mentre è sé stesso che inganna."

"Parole! Io ho domandato la ragazza perché è la ragazza che mi conviene: e la ragazza sposerò. L'altra starà a suo posto."

"Parole sono queste, figlio mio! Le cose, in queste circostanze della vita, vanno male, quando non sono chiare fin da principio. Voglio credere al tuo giuramento. Voglio credere. Non c'è stato mai niente, fra te e la donna, dici tu. Niente. Voglio credere. Ma ci son gli occhi che fanno per conto loro. E sappiamo come si va a finire, in queste storie. Una volta penetrato nel frutto, il verme non se ne va più."

"Ebbene che devo fare? Se crederete, la donna non metterà mai piede in casa nostra."

"E perché non deve mettere piede in casa nostra? Dunque l'inganno c'è! Stefene, parla da uomo di coscienza. Dimmi la verità."

Allora Stefano disse con impazienza:

"Ma se l'avete detta voi poco fa, la verità! Sono uomo anch'io e le occasioni ci arrivano fin dentro casa! La donna è venuta qui e mi ha guardato lei per la prima!"

Le sue parole risuonavano aspre, chiare; eppure si sentiva come una vibrazione di piacere crudele nella sua voce; piacere di far dispetto al padre o piacere di rievocare il ricordo della donna, o di vendicarsi di lei per la noia che gli procurava?

Il padre domandò:

"Relazione c'è stata, fra voi?"

"A questo non rispondo; perché già ho risposto."

"E allora lascia che ti ripeta una domanda: perché invece di lei hai voluto domandare la ragazza?"

"Il perché lo sapete già. Perché era il vostro volere. Così era stabilito. Da tanto tempo si parlava di questo matrimonio che io stesso non sapevo pensarne un altro. Era il desiderio vostro, dei parenti tutti. E stato il testamento stesso di mia madre: come potevo pensare a disobbedirvi, dopo essere stato sempre un figlio obbediente? Eppoi", concluse, con quel vago riso di rancore e di sarcasmo, "per l'altra, certo, non sareste andato a fare la domanda."

"Questo è vero, malanno!"

"Una vedova! Una donna più vecchia di me! Una parente povera con figli già grandi! La matrigna appunto di quella che già tutti consideravano come mia fidanzata! Potevo prendermela per amica, se fossi stato meno onesto di quello che mi avete fatto; ma per moglie no. E neppure per amica, era possibile prenderla, perché c'era di mezzo l'onore del parentado e poi il pericolo di sposarla. E questo, vi assicuro, assolutamente non volevo farlo. Non volevo farlo", ripeté con accento di rabbia, "perché appunto sono figlio vostro e, in fondo, quello che pensate voi penso io. La donna mi passava accanto come il fuoco. Come non accorgermi di lei? Ho però sempre frenato il mio desiderio perché avevo la coscienza di non poterlo mai onestamente soddisfare. Questa è la verità; e dovreste compiacervene."

"E me ne compiaccio. Ma allora non si doveva chiedere la ragazza. O era per stare vicino alla matrigna?"

"E può darsi!", disse Stefano con esasperazione.

E gli parve di denudarsi, davanti al padre, ma per fargli dispetto.

Zio Predu invece continuò più quieto le sue domande.

"Come va che quell'idiota si è accorto del tuo pensiero?"

"Io non lo so. È un ozioso e gli oziosi han tempo anche di osservare i pensieri altrui."

Il padre tacque. Pensava. Poi d'un tratto disse, parlando come fra sé:

"Pare una cosa da niente ed è una matassa imbrogliata da districare."

E volse il viso, così vicino che Stefano sentì l'odore della barba ancora grassa e umida di vino, poi parlò sottovoce, ma ogni sua parola dava a Stefano come un colpo di bastone sulle spalle:

"Non c'è che un rimedio; parlare chiaro alla ragazza e rompere il matrimonio."

Stefano s'era drizzato sulla schiena. Vedeva Annarosa come fosse lì, viva e partecipante al colloquio. E chiuse gli occhi per sfuggirla. Tutto egli poteva fare; fuorché umiliarsi o diminuirsi davanti ad Annarosa. Le stesse parole più severe del padre gli cadevano ai piedi come foglie morte, al pensiero di una sola delle parole che Annarosa poteva dirgli. Tutto, tutto, fuorché umiliarsi o diminuirsi davanti a lei.

"Io non rompo niente, babbo! Né io né alcuno di noi ha diritto di offendere Annarosa, e tanto meno d'imporle niente. È lei che deve decidere, se crede. È abbastanza intelligente per aver capito anche lei; anzi ha capito più degli altri; e non ha mutato aspetto, perché mi conosce, perché ha fede in me; ed io non tradirò mai la sua fede. No; io non sfiorerò mai quest'argomento, se lei stessa non me ne parlerà. Lei vale più di tutti noi e bisogna rispettarla anche con le parole... Sì, vale più di tutti noi", ripeté con forza.

"E tanto più allora bisogna salvarla! Si tratta di coscienza, malanno!"

"Che cos'è la coscienza, per voi, in questo caso? La paura di far soffrire l'altra donna? Ma se questa non ha mai sperato ed è anzi contenta che le cose siano come sono? Se invece soffrirebbe del contrario? O che è altro per voi, adesso, lo scrupolo di coscienza? La paura del male in avvenire? Ma se è appunto questo che vogliamo sfidare? Si va alla guerra contro il nemico, con la certezza di vincere. Io e Annarosa possiamo aver commesso errore promettendoci senza amore; ma di questo errore possiamo fare la prova della nostra vita. Eppoi", aggiunse, turbandosi, "l'amore può venire, forse è già venuto. Non è l'amore solo dei sensi, che esiste: e specialmente nel matrimonio è l'altro amore che esiste, quello delle anime. Se Annarosa ed io vogliamo unirci così, a voi che importa? Che diritto avete voi di dubitare delle nostre azioni future? Perché volete adesso che io rompa la promessa? No, no, io non voglio, e neppure lei lo vorrà."

"Ciarle, ciarle! Io non intendo tutte queste cose. Io e tua madre abbiamo sempre amato le cose chiare! e lei aveva quasi l'istinto del pericolo che tu correvi, se si opponeva, lei sola, al progetto di questo matrimonio. Capiva, lei, che la ragazza ti avrebbe sposato solo per interesse. E così sarà, Stefene! Così sarà, se tu non darai retta a me."

"Ah, babbo! Voi mi ferite. Io non voglio nulla da voi. Posso vivere del mio lavoro. Fate voi della vostra roba quello che più vi piace."

"Io non devo vivere cento anni!"

"Io spero che voi camperete più di me. E siete forte ancora e potete farvi un'altra famiglia. Tenetevi tutto; ma lasciatemi vivere a modo mio. Se mi volevate in tutto somigliante a voi dovevate lasciarmi com'ero nato, come voi. Ma anche così come sono né voi né altri può trovare da ridire sulla mia buona fede, sulla mia volontà di essere in regola con me stesso. Nessuno."

"Eppure un idiota ubriaco ha potuto, questa sera, ridire qualche cosa."

Stefano si sentì di nuovo arrossire, nell'ombra fresca che gli velava il viso. Sollevò il pugno come volesse minacciare qualcuno, poi lo lasciò cadere inerte sul ginocchio.

"Tutti abbiamo da ridire, sulle azioni altrui, babbo: è facile fare la parte dell'ubriaco. Però noi giudichiamo sempre gli altri attraverso la nostra capacità di male, non attraverso quella di bene. Se si dovesse dire tutto quello che pensiamo!"

"Parla, parla pure. Siamo come in tribunale. Di' pure tutto il tuo pensiero. Non ti ho detto io il mio? Tu credi dunque che io giudichi adesso attraverso la mia malizia? Ti giudico attraverso l'esperienza della vita e del bene che io ti voglio. Che sta a fare un padre accanto al figlio se non ad insegnargli il bene? Non sono sempre stato un buon padre, io? Che hai da rimproverarmi? Non ti ho mandato a studiare, invece di mandarti all'ovile, perché tu imparassi meglio a vivere?"

"Era meglio condurmi all'ovile, se volevate che restassi pastore nell'anima. Questo è il guaio; mi avete mandato a studiare e pretendevate che restassi come voi."

Zio Predu diede un lieve ansito: lieve ma così pieno di angoscia e d'ira che il cane, vigile nel suo assopimento, ebbe una scossa come sentisse il gemito d'un ferito. Anche Stefano si turbò: sentì che feriva il padre oltre le sue intenzioni, e abbassò la voce, si fece umile e paziente.

"Non dico che non abbiate ragione voi. Siete più forte, più sano di me, voi; non c'è nulla al mondo che io rispetti più di voi: e anche vi invidio, babbo; la vostra via è stata dritta, e voi ne vedrete il termine e sapete l'ora in cui il sole tramonta. Se io vi ho sempre obbedito, non è appunto perché vi rispettavo e vi rispetto?"

"E allora obbediscimi ancora. Tu parli da avvocato e puoi rigirare in mille modi le tue parole e rivolgerle tutte a tuo favore. Io ti parlo da pastore; io ti dico ancora una volta che davanti alla coscienza le ciarle non valgono. Interroga bene la tua coscienza, Stefene; e lascia parlare a lei; non parlare tu con le tue ragioni. Io non amo le vie tortuose, e ti dico che il matrimonio che tu vuoi fare non l'approvo più perché è già macchiato, e del peccato più grave davanti a Dio. Pensaci bene tre giorni e tre notti e vedrai che ho ragione io. Tutto il resto, vecchi o giovani che siano, avvocati o pastori, padri o figli, importa niente."

"Importa a me", ribatté Stefano, senza mutare tono, ma fermo, incrollabile nella sua stessa umiltà, "non ho bisogno di tre giorni e neppure di tre ore per interrogare la mia coscienza. Essa è davanti alla vostra, ma non si possono intendere le nostre coscienze, perché troppo diverse e lontane."

Il padre si alzò, duro e pesante. Fece un passo, poi torno a sedersi.

"Ascoltami, Stefene, delle cose che tu mi dici ne capisco ben poco. Sono ignorante. Ma una cosa dico, che non bisogna scherzare con la tentazione. La tentazione è come il gatto col topo: giocherà e magari fingerà di abbandonarti, ma ti abbandonerà per poco, poi ti aggranfierà più forte. Lascia dunque che la districhi io questa matassa. Troppo mi hai rimproverato d'esserne la prima causa io. La responsabilità dunque è mia."

"È mia", disse Stefano, tendendo la mano come per riafferrare una cosa che gli venisse tolta. "È inutile insistere, babbo: io vi rispetto, ma rispetto anche me stesso."

"Pensaci bene, Stefene! Pensa anche alla tua libertà. Una volta perduta non si riacquista più. E un giorno mi rinfaccerai anche questo. E dunque se ho sbagliato nel fare di te un figlio obbediente e rispettoso, quest'altro errore, adesso, di lasciarti legare per la vita a una donna che tu dici che ti hanno imposto, quest'altro errore non lo voglio commettere."

Stefano balzò in piedi; parve volesse andarsene, ma poi cominciò a camminare intorno al cortile, con passo cadenzato, come una sentinella in uno spalto.

No, suo padre non capiva, non poteva capire. E col pretesto di fargli del bene gli usava violenza. Sempre così era stato. Da bambino Stefano non aveva voglia di studiare. Ricordava di avere fino a dieci anni indossato il costume, e si rivedeva in quello stesso cortile, sotto quelle tettoie, a giocare col cane, ad arrampicarsi sui cavalli, e farsi costruire dai servi dei piccoli carri paesani: il suo sogno era di andare col padre all'ovile, di perdersi nella libertà della tanca, di fare la vita del pastore. Lo avevano costretto a studiare, per vanità, per fare di lui un borghese, un laureato. Lo avevano spogliato del costume, e mandato in una grande città. Aveva provato tutte le noie e la tristezza delle piccole camere d'affitto, lo spostamento del paesano buttato fra le astuzie e le raffinatezze della città. Ricordava quegli anni come anni di esilio. Aveva conosciuto i luoghi del vizio mascherato di piacere. La sua natura indolente e sensuale lo portava, sì, al piacere, ma la sua anima primitiva si smarriva nei sogni; sognava sempre, anche urtando contro la più brutale realtà. Però il suo istinto paesano lo salvava sempre dalle cadute troppo pericolose: la diffidenza e anche un po' d'avarizia spirituale lo aiutavano. Poi...

Poi era tornato a casa, con la sua laurea. Ma la nostalgia non gli passava. Ed egli sentiva bene che era la nostalgia per luoghi e cose che non avrebbe ritrovato mai più; per la vita che non gli avevano permesso di vivere. Sognava, a volte, di tornarsene nella città, di mischiarsi alla vita marina dei grandi centri: aveva mezzi, poteva, volendolo, farsi anche eleggere deputato, salire al potere. Ma, in fondo, sapeva che neppure questo avrebbe risolto il problema della sua felicità. Ed era scontento; si sentiva solo, goffo, gli pareva di essere brutto e guardato dalle donne solo per interesse.

D'un tratto tornò a sedersi presso il padre.

"Sì", disse con voce sommessa ma ferma, "me l'avete imposto. Tante altre cose mi avete imposto! Persino mia madre, non pesino sull'anima sua le mie parole, non ha voluto lasciarmi senza impormi di sposare Annarosa. Non l'ha chiamata al suo capezzale per consegnarle le chiavi? E forse ella si accorgeva di quanto passava in me, in quei giorni; forse, nella sua intenzione, era la volontà di liberarmi della matrigna col farmi sposare la figliastra: e se così è stato, come voglio credere, la benedico; ma infine anche lei si è valsa fino all'ultimo della sua potenza su di me. Adesso che tutto è concluso perché volete guastare ogni cosa? Perché vi prende questo tardivo scrupolo delle mie intenzioni? In fondo è forse la vanità di apparire scrupoloso di fronte agli altri, che vi prende."

"Stefene!", gridò il padre con voce rauca, alzando il bastone. E Stefano si strinse un po' istintivamente verso il muro, ma riprese, senza mutare accento:

"Voglio anche dissipare i vostri scrupoli; e vi ripeto che Annarosa mi piace e che io piaccio a lei. Lasciate che ci sbrighiamo fra noi: non mettetevi in mezzo. Volevate darmela quando non la volevo io, e adesso che la voglio io vi opponete."

Zio Predu aveva abbassato il bastone ma punzecchiava con rabbia il cane; finché l'animale si sollevò impazientito, e abbaiando e facendo qualche giro intorno a sé stesso andò ad accovacciarsi più lontano. Poi di nuovo fu silenzio: anche i buoi sotto la tettoia avevano cessato di ruminare, e la facciata della casa, le stelle sul comignolo e i tegoli che si sporgevano dai tetti, ogni cosa pareva spiare aspettando la fine del colloquio.

"Sì, la voglio", ripeté Stefano, come riaffermando la cosa a sé stesso. "E se lei non vorrà essere la prima a parlarmi dello stupido incidente di questa sera, io non sarò il primo a parlargliene."

Allora il padre si alzò, grande, grave, e gli si mise davanti: ed egli ricordò istintivamente certi suoi terrori infantili quando per esempio il maestro mandava a dire a casa di non averlo veduto a scuola, e il padre gli si ergeva davanti minaccioso come una nuvola che sorge d'improvviso all'orizzonte; e lo travolgeva, lo atterrava con la tempesta delle sue percosse.

"E io ti dico che fai male, Stefene! Pare che tu abbia paura di te. Ebbene, io ti ripeto per l'ultima volta che devi parlare chiaro ad Annarosa. Se sei sicuro di te e di lei, come fai intendere, tanto meglio. E se lei ti vuole lo stesso, ti prenda pure. Buona fortuna! Ma se non le parli tu, le parlo io: questo te lo assicuro, in fede mia. Fa quello che credi, adesso."

Si allontanò di un passo: aspettava ancora la risposta.

Stefano aveva abbassato la testa e chiuso gli occhi: sentiva riecheggiarsi dentro, come gridi in una caverna, le parole: "Pare che tu abbi paura di te", e nel suo turbamento confuso non sapeva se ascoltarle con rabbia o con umiltà.

Quando sollevò la testa e riaprì gli occhi, fermo nella sua intenzione di non rispondere più, vide che il padre si allontanava verso la casa: ma l'ombra di lui gli rimaneva davanti, ed egli aveva quasi paura ad alzarsi ed a continuare con essa una lotta nella quale nessuno dei due avrebbe vinto mai.

© Grazia Deledda







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dal 2020-12-11
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