Nasco a Bologna nel 1912. Mio padre Giovanni è direttore della Carlo Erba, chimico illustre, stimato dai Visconti di Modrone; mia madre Olga è casalinga, figlia di aristocratici; ho pure una sorella (Luisa), più grande soltanto di un anno. Nel 1914 andiamo a vivere a Milano, dove nasce Maria, l’altra sorella, mentre io cresco strano per una casa di gente pratica e scientifica, amo solo le cose scritte e poi stampate. Otto anni e leggo il quotidiano, comincio a scrivere un romanzo come La mia vita, parlo di quel che ancora deve cominciare, va da sé che non lo finisco, sarà la vita vera a continuare. Son bimbo ribelle, vivace, ruvido, scontroso. Mi puniscono spesso ché faccio giocare le sorelle a cose da maschi, troppo pericolose. Amo mia madre, ricordo e mi commuovo quando penso che cantava la dolce filastrocca: Guidolino, Guidolinetto, eccolo qui il mio bell’ometto. Mio padre lo rispetto, ma è troppo diverso da me, non ci capiremo mai e niente faremo per capirci, per stare vicini, neanche dopo che mamma volerà via dai nostri lidi. Siamo a Varese, nella villa estiva di via Limido, quando muore il nonno e nasce Mario, il fratello più piccolo. Mia madre s’ammala della terribile spagnola, va in clinica a curarsi, poi a Gardone, ma niente può contro il tremendo male. Ho solo 12 anni quando muore e io non so che fare, senza la sua dolce voce mentre canta; Luisa mi farà da madre tredicenne, forte e risoluta, proprio come lei. Irrequieto come pochi, di spirito ribelle, animo avventuroso, faccio incazzare mio padre mica poco: guido l’auto di famiglia di nascosto, rischio incidenti, vado male a scuola, non studio che le cose preferite. Mi piace leggere romanzi, scrivere racconti, ma odio tutto quel che mi ricorda scienza e matematica, persino filosofia e geografia non le sopporto, così diverso da mio padre, amo solo la letteratura. Mi respingono in matematica e filosofia, quando riparo a ottobre il commissario mi promuove dietro giuramento di non iscrivermi per nessuna ragione a scuole scientifiche. Non mi passa neppure per la testa. Prima vacanze borghesi al Forte, in Versilia, dove diciassettenne m’innamoro per la prima volta d’una dolce ventenne fiorentina; poi torno a casa e come scuola scelgo il classico, il famoso Parini di Milano. La scuola è per me un inferno senza fine, vado avanti senza gran passione, boccio alla maturità in tre materie. Greco, matematica e filosofia, scogli insuperabili di questa vita mia. Studio da privatista, ché al Parini non ci torno, non fa per me quella scuola austera, ripeto l’esame un anno dopo e mi prendo una rivincita importante, ché il mio tema viene ben lodato da un bravo commissario d’italiano. In ogni caso meglio cinema e teatro che studiare, al limite leggere e ballare, andare a cavallo, sciare, far di nuoto, queste le mie passioni. Ma mio padre mi vuole laureato. Lo compiaccio, tanto mi costa poco. Mi iscrivo a legge e supero gli esami senza amore. Non sarò mai avvocato, questo è chiaro. Scrivo tanto, invece, su Libro e moschetto, giornale della gioventù fascista; cado innamorato tra le pagine di Einstein e della sua teoria della relatività, nonostante la poca passione per le scienze; scopro Shakespeare e il formidabile Amleto, Ivanhoe di Scott e Dante Vivo del Papini. Sono allievo ufficiale a Bassano del Grappa, tra gli alpini, mi fidanzo con Carla a mezzo cartoline che trasudano amore appassionato, stremato amore d’una vita mai compiuto. Torno a Milano da ufficiale, litigo con mio padre ché l’avvocato proprio non lo voglio fare; leggo Bergson, Turgenev, Palazzeschi, curioso onnivoro di tutto quel che è scritto, saggio o romanzo non importa mica. Viaggio molto: Algeri, Tunisi, Palermo, Parigi, Londra, i monti del Tonale, Oslo, Copenaghen, persino Germania … Mio padre mi vorrebbe a lavorare, mi trova pure un posto come promotore di un’azienda, un lavoro che in fondo saprei fare, ma non ci voglio stare, scappo via dopo un anno, cerco la mia strada. Intanto muore anche Luisa, la mia dolce mammina tredicenne, in una splendida giornata di primavera del 1938, prende la tubercolosi a 27 anni, dopo aver sofferto di spagnola. Scrivo un diario dove annoto i miei pensieri, le mie letture che van da Fogazzaro a Pascal, passando per Ranzoli e Montaigne. L’ultima feroce discussione con mio padre, dopo una colazione di famiglia, mi porta in dote la sospirata libertà sotto forma di modesta rendita che mi affranca dal lavoro. Mio padre non capisce, ma che importa! Vivo bene solo. Voglio scomparire. Voglio essere nessuno. Voglio leggere e scrivere, soltanto, avere per compagni Leopardi, Dante, Schopenauer, Balzac, Rousseau e tanti altri sodali d’avventura. Nel diario scrivo le prime frasi sul suicidio, cosa nefasta, gesto da condannare, ché nega la speranza, l’istinto vitale che non si può tradire. L’Italia entra in guerra, io sono a Varese, leggo Proust e Nietsche, scrivo Filosofia sotto la tenda. Proust è il mio amore letterario, sottolineo, quindi ricopio brani de La recherche mentre scrivo cartoline a Carla e un saggio sul mio scrittore preferito, che pubblicherà Garzanti, pure se la stampa la pagherà mio padre. Conosco Rilke e la sua poesia infinita, soprattutto incontro Maria Bruna Bassi, confidente di tutta la mia vita, amica di famiglia che vive poco distante dalla villa di Varese. Leggo di tutto, la mia guida autodidatta è il pensiero estetico che bramo, il problema di Dio, l’esistenza del male, la natura, il sentimento che condusse Proust a scrivere i suoi capolavori. Sono in Calabria ad attendere la fine d’una guerra che non vuole resa, scrivo nei diari, leggo libri e abbozzo quel primo romanzo, Uomini e amori, lavoro che non amo, dove parlo un po’ di me, nascondendomi dietro ai personaggi. Lascio l’esercito dopo l’armistizio, vivo da Gigetta, una vecchia signora che mi ospita, continuo le letture, da Pascal a Croce, frequento pure Cecov e Tolstoj. Una triste notizia giunge da Bologna e mi fa soffrire: l’amato zio Goffredo morto suicida, malato terminale, lo zio che da bambino mi era stato più vicino. La mia vita è fatta di letture, non conta tanto dove sono stato ma gli autori che ho letto e frequentato: Leopardi, Bernanos, Borgese, Bacchelli, Moravia, Baudelaire, Poe, Fogazzaro … Lavoro al mio romanzo calabrese, comincio ad avvicinare gli editori ma tra di noi non sarà mai una bella storia, infine vado a Milano dall’amico Banfi e con me spesso c’è la Maria Bruna che capisce le pene del mio cuore. Pubblico Realismo e fantasia, a mie spese, meglio … a spese di mio padre - in casa è lui che allarga i cordoni della borsa -, un saggio che sarà l’ultima cosa pubblicata in vita. Per tutto il dopoguerra scrivo tanto: finisco il romanzo calabrese e scrivo Incontro con il comunista, provo a spedire agli editori - persino Mondadori! - ma è tutto inutile, non mi stanno mai a sentire, il romanzo uscirà su La Provincia di Varese, poche puntate, poi dentro un cassetto. Vado a vivere a Varese, nella villa di famiglia di via Limido, non mi attira la vita di città, balli e ricevimenti più non voglio, amo la campagna, la natura, il bosco, i miei cavalli, e poi leggere, scrivere, studiare, con la sola compagnia di Maria Bruna. Poi di amici me ne restan tanti, da Thomas Mann a Gide, persino Kafka, Flaubert, de Musset, Renan e il vecchio Stendhal … Annoto frasi nelle mie agendine, riporto il mio peso, lo stato di salute, le disavventure del mio cuore, provo mille volte a smetter di fumare, senza riuscire. Vorrei scrivere un romanzo ambientato in Germania ma non lo finisco, intanto scrivo per diversi quotidiani, vado a Milano, in Svizzera e a Lugano. Bompiani dice no a Uomini e amori, non è mica il solo, ma io mi consolo scrivendo saggi, racconti e articoli, che faccio ricopiare da solerti dattilografe e pubblico su giornali, poi ripongo in cartelle e nei cassetti. Scrivo sceneggiature e commedie, una conversazione su Proust che porto alla Rai, filosofeggio con Calogero e lui m’incoraggia, pure se un tempo la filosofia m’era indigesta. Compro una macchina alla moda, una Lancia Ardea con le tendine che userò per amoreggiare, mentre Mario si sposa - nonostante il mio odio per le feste mi tocca far da testimone - e Maria mi dà nipoti su nipoti. Maria Bruna è la sola amicizia intelligente, l’unica donna con cui posso parlare, quella che mi comprende, che vien con me a Lugano, alla Radio Svizzera, dove leggo un testo e consegno una commedia, poi mi accompagna a Milano da Indro Montanelli. Mio padre mi regala un podere verso Gavirate dove amo andare a passeggiare, cercare quiete, cavalcare in groppa a Zeffirino, curare vitelli appena nati, occuparmi della fattoria, piantare rose, arbusti rampicanti, alberi da frutto. Faccio testamento nel 1951, ho solo 39 anni ma devo pensare a chi lasciare i libri (al comune di Varese) e le carte (a Maria Bruna), dicendo pure che la mia pistola Browning voglio donarla a Mario, ma che stia attento: è carica. Provo ancora a pubblicare con Garzanti, vado da Streheler a proporre una commedia, discuto, litigo, sono irremovibile su quel che non voglio abbandonare; scrivo articoli e leggo tante cose, mentre il mio diario raccoglie sensazioni, sfiducia, momenti tristi, un po’ di depressione. Coltivo i campi del mio bel podere dove imparo a produrre del buon vino e annoto le spese per il cavallo, giro un documentario nel giardino e infine lo spedisco alla Ferrania; scrivo lettere come un disperato, al Corriere della Sera, a Spadolini, a Umberto di Savoia … Litigo con mio padre e fuggo in Germania, a Bonn - in un mese cambio quattro alberghi - e da lì collaboro con Il Mondo di Pannunzio per raccontare la vita quotidiana dei tedeschi. Leggo Thomas Mann e scrivo dizionari dietetici, passo a Einstein e riprendo il paesaggio estivo di Varese, penso a come risolvere il problema meridionale e spedisco copioni a Visconti. Muore la mia cara Gigetta che mi ospitò in Calabria, ci eravamo scritti tante lettere, mando fiori ma non vado al funerale, sono sempre più legato al mio cantuccio della campagna varesina, poi c’è mio padre che sta molto male. Il dottor Morselli, come tutti lo chiamano, muore a 84 anni, nel 1958; provo un gran dolore, ché non ci siamo mai capiti, non c’è stato tempo di spiegare, forse non lo abbiamo mai trovato. Fede e critica è il mio ultimo lavoro, ci credo, lo porto in Feltrinelli da Spagnol, ma non va bene, non va mai bene niente con questi editori da strapazzo. Vivo nel mio villino di campagna, senza telefono, senza televisore, solo molto tardi deciderò di comprare un frigorifero, ma quando è fresco basta tenere fuori il cibo che mi va di conservare. Carla rifiuta di sposarmi. Non ci vengo a seppellirmi in mezzo ai campi, dice. Restaci tu. Restaci con la tua gatta. Farò a meno anche di lei, tanto ho i miei libri, il mio cavallo, le mie vigne, di puttane ne trovo quante voglio … poi però ci ricado e m’innamoro, non mi fa bene innamorarmi, ormai lo so, quando finisce resto ancor più triste e solo. Che amore d’Egitto! Lei scappa al Cairo e io comprendo che non era amore, la scaccio via dalla mia vita, non la voglio proprio più vedere, meglio le mie giovenche, le mie mucche, la mia campagna in fiore. Roland Barthes e Umberto Eco sono i nuovi miti, accanto a un sacco di letture che parlano di laici e cristiani, poi scrivo Un dramma borghese, lo mando in lettura, solo Sereni risponde per la Mondadori. Non va bene, peccato. A Moravia piace ma non ha il potere di farlo pubblicare. Non me ne curo, prendo un po’ di appunti, ché voglio scrivere il mio romanzo più importante, Il Comunista, dove metto dentro persone vere e fantasie d’autore. Leggo e rispondo a chi scrive che il romanzo è morto, che non è tempo più di far romanzi, dico che la narrativa è l’unica possibilità per la letteratura. Non mi pubblica nessuno, neppure gli articoli, passo per un tipo un po’ bislacco, dal carattere impossibile, litigo con un sacco di persone mentre scrivo Contro-passato prossimo e finisco Il Comunista. Le donne mi fanno soffrire, gli editori pure, nonostante Sereni lo proponga, nessuno vuole Un dramma borghese, io sprofondo ne La nausea di Sartre e mi faccio ancor più male. Scrivo un nuovo testamento. L’ultima illusione è Il Comunista, ché Rizzoli lo pubblicherebbe, firmo un contratto ma non viene rispettato, sciolto dopo un anno e mezzo, senza motivo. Scrivo senza speranza Roma senza Papa, lo accetta solo Rebellato, tra i tanti editori da me selezionati, ma solo se pagherò la stampa. Leggo Il mestiere di vivere di Cesare Pavese e annoto un sacco di appunti sul suicidio. Il testamento è pronto, ormai da tempo. E scrivo sempre meno sul diario, soltanto poche note. Passeggiare in montagna insieme a Maria Bruna è la sola cosa che mi resta. È il 1973, il 31 luglio, trovo tra la posta due manoscritti di Dissipatio H.G., rifiutati. Troppo per continuare ad accettare. La pistola militare Browning è sempre carica. La uso. Sulla mia testa. Nel bagno. Seduto su una sedia a sdraio di tela. La mia ragazza dall’occhio nero non fallisce. Forse la sola che non mi ha mai tradito. Non ho rancori. Non ne ho mai provati. Abbiate solo cura dei miei libri.