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Michel De Ghelderode
(1898-1962)
a cura di Ilaria Biondi
Pubblicato su PB19


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Michel De Ghelderode<br>(1898-1962)

Michel de Ghelderode, una delle figure più celebri e affascinanti della letteratura belga di lingua francese della prima metà del XX secolo, ha lasciato dietro di sé un’opera abbondante, variegata e di straordinaria potenza espressiva, che comprende un’ottantina di pièces, un centinaio di racconti e poesie e alcune centinaia di articoli. 
Ghelderode, al secolo Adémar-Alphonse-Louis Martens, nasce a Ixelles il 3 aprile 1898, quarto ed ultimo figlio di Henri-Alphonse Martens e di Jeanne-Marie Rans. Benché i genitori siano entrambi d’origine fiamminga, il giovane Adémar viene educato in francese, per ragioni di promozione sociale. A partire dal 1904 studia presso i «Messieurs-Prêtres» dell’Istituto Saint-Louis di Bruxelles; una crisi acuta di tifo, che lo porta alle soglie della morte e che lo segnerà per sempre, lo costringe ad interrompere prematuramente la carriera scolastica, nel 1914. L’educazione religiosa ricevuta durante questi anni instilla nel suo animo una radicata paura nei confronti della morte e del diavolo, paura che lo accompagnerà per tutta la vita. Dal 1915 al 1916 è iscritto al Conservatorio di Bruxelles, che abbandona, o da cui viene forse espulso, nel 1917, alla vigilia degli esami. Il 1917 è anche l’anno in cui Ghelderode debutta nel mondo della scrittura: grazie alla frequentazione di un antico caffè di Bruxelles, il Compas, egli ha modo di stringere contatti e amicizie con scrittori e giornalisti; gli viene così affidata la redazione della «rubrique artistique» del settimanale brussellese «Mercredi-Bourse». Dopo i primi articoli firmati con il nome di battesimo, agli inizi del 1918 compare il suo primo testo con lo pseudonimo Michel de Ghelderode. Tale scelta è dettata dalla volontà di abbandonare un nome troppo diffuso e privo di carattere qual era Martens, per adottare il ben più prestigioso e aristocratico de Ghelderode. Lo pseudonimo, che lo scrittore adotterà ufficialmente come patronimico solo a partire dal 1930, deriva probabilmente da Ghelrode, un paesino nei dintorni di Lovanio, città natale della madre, scelta che manifesta il suo profondo attaccamento al mitico mondo delle Fiandre. Lo pseudonimo è anche rivelatore del suo narcisismo e della sua propensione alla mistificazione: Ghelderode cerca infatti costantemente di riscattarsi da un’esistenza banale, ordinaria e noiosa inventandosi una biografia immaginaria, creando attorno alla propria persona una leggenda misteriosa e sulfurea, come testimoniano anche le dichiarazioni menzognere che l’autore ama rilasciare ai suoi interlocutori, e di cui si ritrova traccia nelle pagine de Les Entretiens d’Ostende. Del 1918 è anche la rappresentazione della sua prima pièce, La Mort regarde à la fenêtre, ispirata al grande maestro americano Edgar Allan Poe. Tra il 1919 e il 1921 Ghelderode è alle prese con la stesura del roman burlesque Heiligen Antonius, che per esplicita volontà dello scrittore non verrà mai pubblicato. E’ questa la prima opera in cui il giovane autore traspone, in forma mitica, il suo dramma di bambino infelice, alla continua quanto impossibile ricerca dell’approvazione paterna: sullo sfondo di un paesaggio fiammingo fecondo, abitato da un popolo buono e generoso che si abbandona spensierato ai piaceri dell’amore e della tavola, si eleva la figura inquietante e severa del mauvais père, del Dio Padre che scaccia il proprio figlio dal paradiso. Il Ghelderode bambino è infatti un essere fragile e timido, che vive nel costante timore del padre, uomo rigido e autoritario, che trova rifugio e conforto solo nella madre, donna sensibile e delicata, attaccata in modo viscerale alle leggende e superstizioni della sua terra d’origine. Sono questi anche gli anni del servizio militare, da cui il futuro drammaturgo viene congedato nel 1921 per gravi motivi di salute. Nel frattempo Ghelderode si lega ai movimenti letterari e artistici d’avanguardia, e scopre l’opera di grandi drammaturghi come Strindberg, Wedekind, Pirandello e il teatro espressionsita tedesco. Nel 1922 viene data alle stampe L’histoire comique de Keizer Karel, un’oeuvre patriale che immortala l’imperatore Carlo Quinto, figura molto amata e popolare nelle Fiandre. A distanza di un mese vede la luce anche La Halte catholique, raccolta di quindici brevi racconti, fortemente eterogenei ma accomunati  dalla tematica del complesso e difficile rapporto tra l’io, il mondo e Dio. Nel recueil coesistono racconti come Paysage attristé e Ma race mauvaise che ritraggono, con sapiente e malinconico realismo, scene di vita quotidiana ambientate in squallidi e miseri sobborghi operai, accanto a scritti come Grimace, Soirs o Escaut, la cui dimensione soprannaturale anticipa le atmosfere fantastiche di Sortilèges, che vedrà la luce a distanza di vent’anni. Non manca infine un gioioso tributo al foklore locale e alla religiosità del popolo fiammingo, come testimoniano L’Ommegang, Poème de Marie e Les authentiques tentations de saint Antoine.  Nel 1923 Ghelderode entra in servizio come impiegato presso l’Amministrazione comunale di Schaerbeek e dà alle stampe un’altra raccolta, L’homme sous l’uniforme, che evoca la rude esperienza del servizio militare e la tragica, dolorosa scomparsa al fronte del fratello durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua vita è segnata, sempre nell’anno 1923, dall’incontro con due personaggi che avranno un ruolo chiave nella sua esistenza: Marcel Wyseur, che diventerà il suo più caro amico, e il critico teatrale Camille Poupeye, che lo convince a consacrarsi alla scrittura drammatica. Nel 1924 sposa con rito civile la fidanzata Jeanne-François Gérard, che sarà sua fedele e inseparabile compagna per tutta la vita. L’amore per il teatro di marionette, che Ghelderode coltiva fin da bambino, confluisce nella pièce pour marionnettes Le Mystère de la Passion, montata per la prima volta nel 1925. L’anno successivo vede la pubblicazione  della sua prima pièce importante, La Mort du Docteur Faust, e la stesura del drama-farce Don Juan ou les amants chimériques, che dovrà attendere il 1962 per essere rappresentato; entrambe le pièces sono costruite attorno alla figura di un personaggio mitico che Ghelderode si diverte a sminuire, a trasformare in vero e proprio anti-eroe. Nel febbraio 1927 viene allestita a Bruxelles la messa in scena dell’opera Images de la vie de saint François d’Assise, pièce che segna l’inizio della turbolenta collaborazione con il Vlaamsche Volkstooneel, il Théâtre populaire flamand, l’unica compagnia belga che propone un teatro innovativo, popolaresco e d’avanguardia, alternativo al convenzionalismo dei teatri ufficiali della capitale, e che si richiama a Jacques Copeau, all’espressionismo e al costruttivismo, senza per questo trascurare il legame con le Fiandre, con le loro tradizioni religiose e politiche. Il legame con questa troupe itinerante segna una svolta nella sua carriera, poiché determina il passaggio dalle pièces pour marionnettes dei debutti al teatro vero e proprio. Cristophe Colomb, scritto nel 1927, è all’origine dei primi dissapori tra il drammaturgo e il Théâtre populaire: quest’ultimo rifiuta infatti di montare la pièce giudicandola troppo artificiosa. Il 30 aprile 1928, dopo una serie di malintesi e delusioni, Ghelderode mette fine pubblicamente ai suoi rapporti con il Théâtre populaire, ma dopo qualche mese è già pronto a riprendere i contatti con la compagnia e ad appianare le controversie; nonostante le numerose incomprensioni Ghelderode continuerà infatti a scrivere per il Théâtre populaire fino al 1932, anno dello scioglimento della troupe. Il Théatre populaire cura l’allestimento di numerosi lavori ghelderodiani: i trionfali Escurial (1929), Barabbas (1929) e Pantagleize (1930), Magie rouge (1931) e infine Le Voleur d’étoiles (1932). Il periodo più fecondo per il Ghelderode drammaturgo è però quello compreso tra il 1934 e il 1937, anni in cui vengono scritte alcune tra le sue più significative e celebri pièces: Sire Halewyn, La Balade du Grand Macabre, Mademoiselle Jaïre, Sortie de l’acteur, La Farce des Ténébreux, Hop Signor! e Fastes d’Enfer.
 Nel 1939 Ghelderode, dopo averlo annunciato in più occasioni, smette ufficialmente di scrivere per il teatro e torna a dedicarsi all’arte del conte. Nel 1941 pubblica Sortilèges, una raccolta di racconti fantastici, la cui atmosfera morbosa e visionaria riflette lo stato di prostrazione e di nevrosi di cui l’autore soffre, con intensità crescente, a partire dal 1935.

Nel 1943 vengono pubblicati i tre tomi del suo Théâtre complet, che contengono anche le due opere inedite L’Ecole des Bouffons e Le soleil se couche. Il suo stato di salute, che peggiora progressivamente, lo induce nel 1946 a rinunciare al suo incarico impiegatizio e a farsi corrispondere una pensione per malattia; può così finalmente lasciare un lavoro che non ha mai amato e un ambiente ostile, in cui per più di vent’anni ha subito continue vessazioni. Negli anni a venire la sua opera godrà finalmente del meritato quanto tardivo riconoscimento, dapprima in Francia e successivamente in patria. Parigi, tra il 1949 e il 1953, conosce quella che viene definita la «ghelderodite aiguë»: le scene della metropoli rivaleggiano nell’allestire le sue pièces, che non mancano di suscitare vive polemiche e che gli valgono l’elogio della critica francese, che lo saluta come uno dei più grandi scrittori europei. Dopo la Francia, anche il Belgio vive un momento di vero e proprio engouement per il geniale scrittore al quale ha dato i natali: le sue opere vengono ora rappresentate nei più grandi teatri della capitale e una di queste, la pièce inedita Marie la Misérable, gli vale l’attribuzione, nel 1954, del «Prix Triennal de Littérature Dramatique 1951-1953». Per un amaro scherzo del destino Ghelderode muore a Schaerbeek nel 1962, qualche mese prima di ricevere il Premio Nobel che l’Accademia di Svezia aveva deciso di attribuirgli.  Tanto nella produzione drammatica quanto in quella narrativa Ghelderode si distingue per il suo spirito fortemente anticonformista, che lo spinge a ricusare tutto ciò che si configura come ufficiale: la sua dichiarata avversione per istituzioni come la Chiesa, lo Stato e l’esercito ne rappresenta la più esplicita testimonianza. Questa visione fortemente pessimistica deriva dalla sua ipersensibilità di uomo timido e malato, che fin dalla più tenera età si sente messo al bando dai suoi contemporanei. Altre ossessioni tipicamente ghelderodiane sono la morte e la donna, due “entità” nei confronti delle quali l’autore nutre un atteggiamento ambivalente, ove la repulsione e il terrore si sposano con un’inquietante e inquieta attrazione. La morte è l’indiscussa protagonista di pièces come Barabbas, Sire Halewyn, La Farce des ténébreux e Mademoiselle Jaïre e di racconti quali L’odeur du sapin, Le jardin malade e Tu fus pendu, per non citare che qualche esempio particolarmente significativo. La sua presenza è spesso inscritta, in maniera inequivocabile, nel titolo stesso: si pensi a testi per il teatro come La Mort regarde à la fenêtre o La Mort du Docteur Faust ma anche a celebri contes come Voler la mort e Mort et Glorification. La sua visione della morte, in linea con la concezione medievale, è tutta materialistica: la sua opera pullula infatti di corpi votati alla putrefazione, all’inesorabile corruzione fisica. La figura femminile dal canto suo è associata ai più bassi e biechi istinti: le sue eroine sono infatti donne lussuriose, sfrenate, assetate di sesso e sangue, l’incarnazione stessa del peccato e della tentazione, visione radicalmente negativa che tradisce non di rado una certa misoginia. Ghelderode del resto non ha mai negato il timore irrazionale che la donna ha sempre suscitato in lui, con la sola eccezione della figura materna; alla donna in carne e ossa egli preferisce la donna sognata, immaginata, figura desiderata e desiderabile ma inaccessibile, e intoccabile che esclude il confronto diretto e concreto, come ben testimonia la presenza, nel suo cabinet de travail, di numerosi manichini, inoffensivi simulacri della figura femminile. Quello di Ghelderode è un teatro che si vuole anti-intellettualistico, un teatro totale ed estremo che fa appello non solo alla ragione dello spettatore ma anche ai suoi sensi, capace com’è di integrare, sovrapporre e coniugare elementi plastici, visivi e sonori (si pensi ad esempio all’invasione della scena da parte di rumori di vario genere, come le urla della folla o il suono cupo delle campane, che accompagnano l’azione drammatica in tutto il suo svolgimento) e che si richiama alla forza e all’energia espressive di forme di spettacolo “minori” e marginali come il guignol, la pantomima, la marionetta e il carnevale.  E’ un teatro dell’istinto, dell’eccesso, dell’esagerazione, che vuole scuotere lo spettatore, turbare la sua tranquillità e suscitare in lui un profondo malessere fisico e mentale, mettendolo di fronte ad una disperata e disperante verità: il mondo è un universo dominato dalla menzogna e dai falsi valori, una ridicola e patetica mascherata in cui gli uomini si muovono inconsapevoli come poveri, meschini e sciocchi fantocci, dominati e schiacciati dalle implacabili forze del destino. Lo stesso Ghelderode parla esplicitamente del carattere blasfemo, corrosivo e aggressivo del suo teatro, che colpisce con violenza e senza pietà lo spettatore (e che prefigura il nouveau théâtre di Artaud, Beckett, Ionesco e Genet): « […] Le théâtre, le vrai, vit de scandale et meurt de sécurité. Je préfère susciter la colère et la haine plutôt que de recueillir un succès d’estime, l’approbation des endormis digestifs, des tièdes, des timides. 1» E lo spettatore dal canto suo non può rimanere impassibile,indifferente e calmo: quello di Ghelderode è un teatro che non ammette mezze misure, o lo si odia o lo si ama.

© Ilaria Biondi



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