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Des Cabinett des Dr. Caligari
(Il gabinetto del dottor Caligari)
regia di Robert Wiene 
Pubblicato su SITO


Anno 1920- Germania


Una recensione di Federico Fastelli
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 Des Cabinett des Dr. Caligari <br>(Il gabinetto del dottor Caligari)

SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Hans Janowitz, Carl Mayer
FOTOGRAFIA: Willy Hameister
MUSICHE: Alfredo Antonimi, Giuseppe Becce, Timothy Brock, Richard Marriott, Peter Schirmann
SCENOGRAFIE: Walter Reimann, Walter Röhrig, Hermann Warm
COSTUMI: Walter Reimann
PRODUZIONE: Rudolf Meinert, Erich Pommer
CON: Werner Krauss (Dr. Caligari) Conrad Veidt (Cesare) Lil Dagover (Jane) Rudolf Lettinger (Dr. Olson) Rudolf Klein-Rogge (A Criminal)


Il Gabinetto del Dottor Caligari, considerato il manifesto dell’espressionismo cinematografico, segna nella storia del cinema un momento di radicale trasformazione. Trasformazione che coinvolge soprattutto l’idea stessa di cinema, il modo di pensarlo. Le novità iniziano fin dalla trama (tra gli sceneggiatori è doveroso ricordare Carl Mayer): è uno dei personaggi del film, Francis, a narrarla. È la storia di uno strano imbonitore, Caligari (Krauss), che un giorno arriva nella cittadina di Holstenwall per presentare un numero di ipnotismo ad una fiera. Ha, infatti, la capacità di controllare la volontà di Cesare (Veidt). Per mezzo di quest’ultimo compie alcuni delitti (tra cui anche quello di un amico di Francis, Alan). Dopo aver tentato il rapimento di una giovane ragazza, Jane (Dagover), si scopre che Caligari si spaccia per il direttore di un manicomio. Viene smascherato e imprigionato. Ma alla fine del film la situazione si ribalta: Francis è un paziente (insieme a Jane e a Cesare) dell’ospedale psichiatrico di cui è direttore Caligari. Il medico che si mostra attento e equilibrato cura la mania di Francis. Il giovane è malato e tende ad identificare il direttore con un certo mistico del ‘700 chiamato appunto Caligari. L’espressione di Krauss con cui si chiude la pellicola è tuttavia ambigua e riapre il dubbio.
Proprio questa ambiguità fa del film un’opera eccezionale. La difficoltà evidente nel percepire la verità (forte eredità della filosofia di Nietzsche) è anche messa in discussione della realtà. Il contesto sociale della Germania degli anni venti, in piena crisi economica, con un’inflazione alle stelle dopo la grande guerra, certo, è ben presente e rintracciabile. L’unica verità che può esistere è quella soggettiva. L’unica realtà possibile è quella piegata dalla nostra percezione.
Le ambientazioni, i paesaggi, tutti costruiti in studio, risultano così profondamente irrealistici, distorti, allucinati, di chiara ascendenza pittorica (i tre scenografi sono infatti tre pittori). Scrive Wiene: “Per l’artista espressionista ciò che è esterno è apparente. Egli cerca piuttosto di rappresentare quello che gli è interiore”. Anche gli oggetti quotidiani sono coinvolti in questo processo: le sedie, gli sgabelli, i tavoli, ma anche porte, finestre, lampioni. Meravigliosi sono poi gli interni della stazione di polizia, del comune e dell’ospedale psichiatrico. L’illuminazione artificiale evidenzia il tutto con chiaroscuri straordinari. Le ombre proiettate assumono grande importanza in alcune scene come l’omicidio di Alan. Faranno scuola.
La recitazione (che gode delle capacità di grandi attori come Werner Krauss e Conrad Veidt) è anch’essa deformata in maniera teatrale. Tutti i gesti sembrano esagerati, eccessivi, stilizzati. Gli attori sono truccati molto pesantemente ed anche i loro costumi sono vistosi.
La macchina da presa si stringe spesso sul volto di un personaggio oscurando il resto. In questo modo partecipa essa stessa a piegare espressionisticamente il contenuto della pellicola.
Il film tracciò una rotta. Molti registi vi si rifecero in maniera palese. Il “Caligarismo” fu un tangibile fenomeno cinematografico che seguì il successo dell’opera di Wiene, 1920.


Una recensione di Federico Fastelli



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