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Shadows (Ombre)
regia di John Cassavetes
Pubblicato su SITO
Anno
1959-
USA
Una recensione di
Federico Fastelli
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SCENEGGIATURA: J. Cassavetes MUSICA: S. Hadi FOTOGRAFIA: E. Kollmar MONTAGGIO: J. Cassavetes, M. McEndree REGIA: J. Cassavetes PRODUZIONE: U.S.A 1959 CON: L. Goldoni, B. Carruthers, H. Hurd, A. Ray
La crisi cinematografica iniziata negli anni cinquanta con il calo repentino del numero di spettatori e la difficoltà della produzione filmica organizzata in maniera verticale dagli studios hollywoodiani, comporta un cambiamento di rotta notevole che conduce in una decina di anni a quel fenomeno da molti denominato Hollywood Reinaissance. La Nuova Hollywood cede parte del potere di produzione all’inventiva di registi e star della recitazione anche nel tentativo di coinvolgere quel pubblico dalle vedute politiche e sociali più radicali che caratterizzeranno gli Stati Uniti degli anni ‘60. I registi, di contro, prendono progressivamente coscienza, anche attraverso l’influenza delle teorie autoriali provenienti dalla Francia della Nouvelle Vague e delle produzioni indipendenti dei film-maker d’avanguardia, del loro valore precipuo. In questo panorama Ombre è da considerarsi, come indica Morandini, un film manifesto della nuova tendenza. Inizialmente girato in 16mm, di modo che la cinepresa potesse essere agile e maneggevole, come saggio di recitazione improvvisata, viene poi rigirato in 32mm e presentato alla mostra di Venezia nel 1961. È la storia di Lelia (L. Goldoni) giovane ragazza di colore, ma “che potrebbe essere scambiata con una bianca” (Morandini), e dei suoi due fratelli: nella New York degli anni 50 i tre devono convivere con i pregiudizi razziali e le proprie inquietudini. Ma, per la verità, non è tanto la trama, in sé, a costituire il perno del film, quanto, invece, “le emozioni che il soggetto poteva suscitare negli attori” (Grazzini). Si tratta infatti di un film senza sceneggiatura, ma, si direbbe in ambito jazzistico con una tonalità definita in partenza, sopra la quale poter improvvisare. Cassavetes lavora esattamente come un compositore jazz, permettendo poi ad ogni interprete il proprio assolo. La rottura della tradizione hollywoodiana è esibita: il montaggio classico invisibile è abolito a favore di una posizione non più ideale dell’occhio che riprende gli eventi. Il tempo e lo spazio si modificano alla ricerca di una realtà quotidiana che non può seguire, per definizione, gli schematismi del decoupage classico. Il reale è fatto di “catene di avvenimenti anche dissennati” (Grazzini) che non si chiudono al termine di una narrazione. Abitudini e accidenti caratterizzano la vita di ogni giorno in maniera tale che questa assomiglia di più ad una partitura su cui improvvisare, piuttosto che ad un reticolo ordinato di rapporti causa-effetto. E questo vale perciò anche per l’arte, in questo caso per il cinema, bisognoso di liberarsi da pesanti condizionamenti tecnici ed economici. Infine il grande uso dei primi piani disvela un’ulteriore livello diegetico: un approfondimento psicologico, secondo quanto indica ancora Grazzini, in grado di far adattare la storia agli attori e al loro sentimento piuttosto che il contrario.
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