Il testo è una novella di Mihajlo Pantic, autore serbo contemporaneo nato nel 1957 a Belgrado. Vincitore di molti premi letterari, al momento non ho trovato traduzioni italiane delle sue opere.
Il racconto è incentrato sulla statua di Grgur Ninski, ovvero Gregorio di Nona, che si trova a Spalato. Secondo la tradizione, sfiorare l'alluce della statua porta buona fortuna.gregorio di Nona fu uno dei primi religiosi medievali a utilizzare la lingua croata al posto del latino nelle cerimonie religiose.
Per quanto riguarda la traduzione, ho lasciato quasi tutti i nomi nella forma originale per rispettare il colore locale della novella. (Alessandra Cargnel)
I piedi di Grgur Ninski di Mihajlo Pantic
Mi permetto di chiedervi – vi piacciono le analogie?
Non so cosa mi risponderete. In realtà, per dirla tutta, non mi interessa. A volte, specialmente quando fuori è nuvoloso, sto seduto nella mia stanza e mi pongo delle domande. E mi rispondo prontamente. Ho pazienza per questo soltanto. Oggi è nuvoloso, sta per piovere, il muraglione grigio del cielo sfiora quasi la terra, mi sembra di essere da qualche parte al mare, e non sul fondo di quello che un tempo era il mare, qui, a Novi Beograd. Da molto tempo chiacchiero con qualcuno dentro di me. Gli dichiaro forte e chiaro: sì, mi piacciono le analogie, le analogie magiche. In esse, quando sono reali, si mostra un qualche senso più alto e si collegano cose che pensiamo essere infinitamente lontane le une dalle altre, e invece non lo sono, perché le illumina una luce divina, come all’alba del mondo, nel momento che precede appena l’inizio del diluvio universale. Nell’istante in cui le mute distanze si dissolvono, guidate dalla provvidenza, mi sembra che il mondo non sia solo casualità, che non sia solo sull’orlo fragile dello sfacelo, bensì che in esso ci sia davvero qualcosa, credo, qualcosa che ci possa assolvere...sebbene questa sia solo ciò che è, ovvero un’impressione.
Mi ricordo di uno di questi momenti. Accadde abbastanza tempo fa perché se ne possa fare un racconto. Qualche anno fa, il numero non conta, cinque o cinquanta, è lo stesso, sono caduti tutti nell’oblio, capitai al mare a Spalato. Ero arrivato fin lì col treno per una serata letteraria, già al mattino presto, con un amico poeta. Era autunno inoltrato, da giorni la pioggia cadeva incessante dal cielo vicino, il mare grigiastro ribolliva nel porto sporco, per le strade si muovevano solo pochi passanti, camminavano come se non sapessero dove stessero andando, il palazzo dell’imperatore ricordava una brutta locanda abbandonata vicino alla strada principale. Dopo esserci sistemati in hotel, io e il mio amico uscimmo per una passeggiata. Avevamo l’ombrello, il vento soffiava così
forte che ci sembrava di volare via ad ogni istante, di essere scagliati in aria con gli ombrelli neri come paracadute. Girovagammo un po’ per le stradine strette del centro storico, ci fermammo davanti a un’osteria chiusa, l’abbandono di fine stagione si poteva letteralmente palpare, era nell’aria come una polvere amaro-salata, e non so come, in quel convulso girovagare per un luogo che non conoscevamo bene, capitammo in una piazza, davanti alla statua di Grgur Ninski.
Non sapevo molto di Grgur. Giusto qualche dato scarno, rinvenuto per miracolo dalla mia nebulosa istruzione di Novi Beograd: decimo secolo, servizio in lingua nazionale, preti glagoliti, sinodi, papa e vescovi, questa storia non mi diceva granché. Ma ammutolii davanti a Grgur, o meglio, davanti alla sua massa bronzea: era di un nero incantevole, di una grandezza sovrannaturale, come un dio pagano. Ci fermammo a osservarlo, la fronte di Grgur era in qualche modo in sintonia con il cielo, non saprei spiegare come, semplicemente così mi pareva, il suo cranio tondeggiante, in bronzo, mi ricordava la cupola di un planetario dissolto nel buio, nel quale dimorano le stelle e si sente una forza grande e innominabile. La pioggia infieriva su di noi, ma Grgur non se ne curava, mi pareva che il freddo metallo del manico dell’ombrello si incollasse alle dita: la gomma protettiva era caduta. E restammo fermi così, davanti al monumento, io e il mio amico scrittore, zitti. Quindi il mio sguardo si posò più in basso, sui piedi di Grgur, sui grandi e duri piedi di uno che forse, un tempo molto lontano, era nato uomo e si era poi trasformato in divino pensiero. Con sorpresa scoprii che il ditone di un piede era lucidissimo, brillava come se fosse stato lucidato quel mattino, e – che mi venga un colpo – non ricordo se fosse il piede destro o quello sinistro, ma non ha importanza, o forse sì. Cos’è questo, mi chiesi, guardando a bocca aperta l’alluce del vescovo che risaltava in tutto quel nero bronzo. Lo chiesi al mio amico, fece spallucce.
E chissà per quanto saremmo rimasti lì, se da una via laterale non fosse apparsa una monaca, koludrica, švora [1], simile a una cornacchia bagnata (proprio così me l’immaginavo, leggendo il romanzo di Slobodan Novak). Si fermò in atteggiamento contrito davanti a Grgur, si segnò, si inginocchiò sulle piastre bagnate e gli baciò l’alluce, quello lucido – le migliaia di baci l’hanno ridotto così. Quindi si voltò e prima di abbassare gli occhi ci guardò di uno sguardo imprecisato, direi fin curioso, che non lasciava dubbi: che ci fate voi due qui? Approfittai di quel microsecondo di eternità divina e le chiesi, facendo l’ingenuo – e potete immaginare quanto fosse ingenuo quello che facevo ingenuamente : “ Perché i fedeli baciano il piede?”
Stette ferma, come a ponderare se risponderci o meno e poi, con una voce che si disperdeva nel vento, disse: “Beh, ma perché crediamo. Tutti i credenti amano il suo piede, sia i nostri che i vostri – (anche se in nessun modo riuscii a spiegarmi da dove avesse capito che non eravamo dei loro, o era evidente dal modo in cui stavamo fermi, dal modo in cui facevamo domande, dal modo in cui tenevamo l’ombrello, chissà, ah, nessuno sa nulla, la sapienza è fragile) – “e lo amano in special modo coloro che non sono fertili, che aspettano la provvidenza e la benedizione, e che desiderano che nasca un figlio sano, sotto la sua protezione”. E in un certo modo il dialogo finì qui.
Il resto della giornata trascorse più o meno in modo prevedibile. Pranzammo, ci riposammo e alla sera andammo a leggere in una sala di cultura. Non venne nessuno, leggemmo gli uni per gli altri, quei pochi di noi, da diverse città di una terra del passato alla quale evidentemente mancava la benedizione divina. Sì, prima di pranzo andammo in posta e io inviai alla mia cara una cartolina con la statua di Grgur Ninski. Dopo tutto, ero andato qualche giorno in montagna a pescar trote nei torrentelli.
Al ritorno a Novi Beograd, lei mi aprì la porta e mi buttò le braccia al collo. “Come lo sapevi?”, mi chiese subito, non riuscendo a calmare una curiosità incontenibile, o forse era puramente agitazione, al tempo non sapevo distinguere, ehm, non ero mai stato padre prima. “Cosa, che cosa sapevo?”, risposi con una domanda, al tempo avevo ancora la pazienza di rispondere a qualunque domanda. “Beh, ovvio – disse risolutamente, scandendo bene – mi hai mandato una cartolina di Grgur Ninski. Aspetto un bambino. Ho sognato che si chiama Djordje.
(Ehi, Grga!!)
In quel momento, in quella magica analogia, ho capito: ho capito la ragione per la quale il mondo esiste.
[1] Termini locali dialettali per indicare la monaca. (N.d.T.)